noirbynoir
I RACCONTI DI MASTRO TITTA
A ottant’anni aveva eseguito più di 500 condanne, con ogni mezzo: forca, mazzola semplice, mazzola e squarto, ghigliottina. Ma era un tipo bonario, Mastro Titta, obbediente, educato, pronto a offrire prese di tabacco alle sue vittime, felice di compiere il suo dovere.
ER RICORDO (G.G.Belli)- Er giorno che impiccorno Gammardella/ Io m’ero propio allora accresimato./ Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato /Me pagò un zartapicchio e ‘na sciammella./Mi’ padre pijjò ppoi la carrettella,/Ma pprima vorze gode l’impiccato:/E mme tieneva in arto inalberato/Discenno: “Va’ la forca cuant’è bbella!”/Tutt’a un tempo ar pazziente Mastro Titta/J’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene/ Uno schiaffone a la guancia de mandritta./”Pijja,” me disse, “e aricordete bbene/Che sta fine medema sce sta scritta/Pe mmill’antri che ssò mmejjo de tene.”
A ottant’anni aveva eseguito più di 500 condanne, con ogni mezzo: forca, mazzola semplice, mazzola e squarto, ghigliottina. Ma era un tipo bonario, Mastro Titta, obbediente, educato, pronto a offrire prese di tabacco alle sue vittime, felice di compiere il suo dovere. Di mestiere faceva il venditore e riparatore di ombrelli, ma per le esecuzioni lo chiamavano in tutti i borghi dello Stato Pontificio: lui andava a cavallo e di dietro veniva l’aiutante su un mulo, come Don Chisciotte e Sancho Panza. Arrivavano, piantavano il patibolo, un colpo e via. Funzionario preciso e scrupoloso, Mastro Titta, fin dalla sua prima volta a diciassette anni, si annotava su un taccuino ogni esecuzione compiuta: nome del condannato, strumento del supplizio, luogo e data, reato.
-Nicola Gentilucci, impiccato e squartato in Foligno, lì 22 marzo 1796, per avere ammazzato un sacerdote, un vetturino e grassato due frati.
– Alessandro d’Andrea, impiccato a Ponte il primo febbraio 1800, per avere rubato un orologio.
-Benedetto Nobili, mazzolato al Popolo il primo settembre 1801, per avere ucciso sua moglie, sua comare ed incendiato la casa.
– Giovanni Ferri, Fortunato Ferri, Nicola Ferri, fratelli carnali, impiccati e squartati in Terracina, per avere grassato il Corriere di Napoli, lì 25 maggio 1802.
– Francesco Conti, impiccato in Città di Castello il 26 aprile 1803, per avere levato la verginità a forza ad una zitella in casa del padre con altri cinque compagni.
– Tommaso Rotiliesi, impiccato a Ponte lì 9 giugno 1806, per avere leggermente ferito un ufficiale francese.
– Angelo Caratelli, Paolo Caratelli, Antonio Scarinei, Rosa Ruggeri, impiccati a Todi lì 6 luglio 1808, perché la donna fece ammazzare il marito dai suddetti.
– Pietro Rossi, romano, di anni ventiquattro, pescivendolo per rapine notturne, e ferite di qualche pericolo, in unione di Luigi Muzi, romano di anni ventitrè, calzolaro, del medesimo delitto, condannati alla morte ai Cerchi il giorno 9 gennaio 1844.
E così via. Dal 1796 al 1864. C’è di tutto. 516 nomi. Ladri, stupratori, assassini, patrioti. Fra decine e decine di paesi del centro Italia ricorrono tre luoghi principalmente: Ponte, Popolo e Cerchi. Ponte Castel S. Angelo, da secoli luogo deputato alle esecuzioni, Piazza del Popolo e via de’ Cerchi: ecco, questi erano i tre punti a Roma, dove si innalzava il patibolo. Folle immense vi si accalcavano attorno nel giorno dell’esecuzione: “Eccolo, eccolo” gridavano impazienti mentre si avvicinava il carretto con sopra il condannato. “Viva Mastro Titta”. E quando la testa rotolava o il cappio si stringeva, scoppiavano gli applausi. I padri davano uno schiaffone ai figli perché ricordassero che quella fine era destinata a tanti altri meglio di loro. Poteva anche accadere però che la gente rimanesse in silenzio, attonita.
Come quando la bellissima e appassionata Geltrude Pellegrini, che accoltellò il marito per stare con il suo amante, un uomo che aveva conosciuto e amato molto prima di sposarsi, salì sul palco. Modesta, ma non avvilita, pallida, ma non abbattuta, nella veste bruna a larghe pieghe porse il capo alla mannaia: caduto sotto la ghigliottina, quando il boia lo afferrò per i capelli e lo mostrò alla folla, questa restò sbigottita, commossa.
– Geltrude Pellegrini di Monteguidone, per parricidio in persona del proprio marito, decapitata ai Cerchi, lì 9 gennaio 1838.
La donna romana, fiera, forte e ardente, è spinta al delitto per lo più dalla passione amorosa. Anche al delitto più atroce.
La vedova Agostina Paglialonga, quando il gagliardo amante macellaio si rifiutò di sposarla per via dei tre figli che aveva avuto dal defunto marito, non ebbe alcun dubbio: li uccise con un’ascia, come fossero abbacchietti, li fece a pezzi, li mise a bollire nella caldaia, e disperse le carni cotte nei campi.
Così Maria Rossetti non indugiò un attimo ad affondare il coltello nella gola della moglie del suo uomo, nonostante i due amanti fossero in procinto di partire per l’America.
– Agostina Paglialonga, impiccata in Orvieto lì 5 maggio 1802 per avere tre infanticidi.
– Maria Rossetti, Serafino Benfatti, rei di omicidio in persona della propria moglie, decapitati in Perugia li… 1855.
Ma anche l’uomo, accecato dalla gelosia, è capace di commettere misfatti orrendi. E di uxoricidi ce ne sono molti nella lista di Mastro Titta. Quello che però lui giudicava il più singolare era un tale Gioacchino de Simoni che ripetutamente tradito dalla moglie Cencia la punì arrostendola su un braciere ardente.
– Gioacchino de Simoni, mazzola e squarto in Collevecchio lì 27 maggio 1816, per omicidio barbaro in persona della moglie.
A parte in questo caso raramente Mastro Titta espresse giudizi o opinioni sui condannati e sui loro delitti. La sua unica preoccupazione era che il lavoro fosse svolto a dovere, con perizia, franchezza e precisione. Per lui non faceva differenza trovarsi davanti un brigante, una prostituta o un prete.
Come Don Domenico Abbo. Prete… Il suo vero nome era Cesare Abbo, noto a Roma per i suoi eccessi al gioco e con le donne, dedito a stravizi di ogni genere. Alto, possente, ben proporzionato, occhi scuri e labbra sensuali, ricco di famiglia, le sue avventure erotiche correvano sulle bocche di tutti. Si narrava che avesse violentato una signora in una stanza di albergo, e il mattino dopo fosse fuggito, travestito con gli abiti di lei. O che una tale Sofia, dopo essere stata sua amante, aveva disceso tutti i gradi della depravazione, perfino recandosi in incognito in pubblici lupanari, fino ad uccidersi con un colpo di pistola al cuore. Compromesso da tutta una serie di fatti simili a questi, Cesare Abbo si era dovuto allontanare, prima a Parigi poi a Liegi, dove aveva continuato a suscitar scandali, fra seduzioni di vergini e violazioni di fanciulli. Fino a quando un suo nipote, eletto cardinale, lo aveva richiamato a Roma e grazie a tutta la sua influenza era riuscito a farlo entrare negli ordini: Don Domenico. In abito talare, sbarbato e castigatissimo, era irriconoscibile come l’antico libertino. In breve grazie all’affabilità dei suoi modi e alla giocondità del suo spirito era diventato direttore spirituale di molte famiglie patrizie ed era piaciuto anche a papa Gregorio XVI, notoriamente uomo d’umore gioviale e sollazzevole. Dopo breve però l’indole lussuriosa del prete era esplosa di nuovo e più vorace di prima: le notizie delle sue orge suscitavano grande sdegno. Un giorno il nipote cardinale, stanco di quello zio depravato e deciso a liberarsene, lo aggredì con collera violenta. Per tutta risposta Don Domenico lo afferrò a mezza vita e lo rovesciò a bocca sotto su un divano. “Un principe della chiesa, un porporato. Fra i molti capricci che mi sono levato questo mancava. Non capita tutti i giorni d’assaggiar carne di cardinale.” Quel che accadde in seguito non posso dirlo ma dimostrò come a Roma “er mejo posto è sempre quello der prete”.
– Domenico Abbo, condannato al taglio della testa, il giorno 4 ottobre 1843 né Forte di S. Angelo per avere strangolato e sodomizzato il suo nipote carnale.
Erano quelli gli anni della Carboneria, di Mazzini e di Garibaldi, della Repubblica Romana. Il Papa era il Papa Re, un tiranno da combattere in nome del popolo sovrano. Ma il popolo erano pochi rivoluzionari, considerati alla stregua di banditi senzadio. Perché Roma era una città sonnolenta, conservatrice, antiquata. Lo stesso Belli che tanto ce l’aveva con clero e nobili, era un reazionario.
Il giorno dell’esecuzione di Leonida Montanari e Angiolo Targhini, i due cospiratori contro il governo di sua Santità, piazza del Popolo era gremita di gente. Di questa esecuzione si fecero molti discorsi perché la tenebrosa associazione alla quale appartenevano, la Carboneria, incuteva spavento alla popolazione di Roma, onesta, timorata e fedele al papa. Avevano tentato di uccidere Filippo Spada Spontini, liberale di nobile famiglia, che da tempo faceva il doppio gioco contro i suoi stessi compagni carbonari. Tutti i tentativi per indurre al pentimento e alla confessione i due uomini furono vani. Senza benda sugli occhi, prima il giovanissimo Targhini poi il chirurgo Montanari, porsero il capo alla ghigliottina, sorridendo. Sebbene avesse ricevuto una quantità enorme di lettere anonime che lo minacciavano di morte se avesse fatta l’esecuzione, Mastro Titta, lavoratore serio e zelante, compì come sempre il suo dovere senza esitazione.
– Leonida Montanari, Angiolo Targhini, decapitati al Popolo lì 23 novembre 1825, rei di lesa maestà e per ferite con pericolo.
La bella che guarda il mare… /Aspetta il suo cavaliere…/La bella che è prigioniera…/ha un nome che fa paura: libertà, libertà, libertà.