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Domenico Semeraro: l’imbalsamatore di Termini
Era alto appena un metro e trenta, ma come il nano di De Andrè anche Domenico Semeraro vantava di possedere quella virtù che le donne apprezzano tanto. Sosteneva di essere un grande playboy e di avere donne belle, giovani, alte. Ma Tania, la sua ultima fidanzata, non arrivava nemmeno al metro e sessantacinque. In fondo però aveva ancora solo sedici anni, dieci in meno di Semeraro.
“Cosa vuol dire avere/un metro e mezzo di statura, /ve lo rivelan gli occhi/e le battute della gente, / o la curiosità /di una ragazza irriverente /che si avvicina solo /per un suo dubbio impertinente: /vuole scoprir se è vero /quanto si dice intorno ai nani, /che siano i più forniti /della virtù meno apparente, /fra tutte le virtù /la più indecente”
Era alto appena un metro e trenta, ma come il nano di De Andrè anche Domenico Semeraro vantava di possedere quella virtù che le donne apprezzano tanto. Sosteneva di essere un grande playboy e di avere donne belle, giovani, alte. Ma Tania, la sua ultima fidanzata, non arrivava nemmeno al metro e sessantacinque. In fondo però aveva ancora solo sedici anni, dieci in meno di Semeraro. Si erano conosciuti con un’inserzione sul giornale, si erano innamorati a tal punto di parlare di matrimonio, ma ad un certo punto, improvvisamente, Semeraro aveva cambiato idea; Tania e i suoi genitori lo denunciarono per violenza carnale. “Il nostro amore è stato rovinato dai genitori di Tania. Volevano solo sistemarla. Con le donne, la mia tattica è la dolcezza” diceva il piccolo uomo.
“Passano gli anni, i mesi, /e se li conti anche i minuti, /è triste trovarsi adulti / senza essere cresciuti; /la maldicenza insiste, /batte la lingua sul tamburo /fino a dire che un nano /è una carogna di sicuro /perché ha il cuore toppo, /troppo vicino al buco del culo.”
Come il nano di De Andrè anche Domenico Semeraro aveva conosciuto solo disprezzo e pietà fin da bambino, nel paese di Ostuni, in provincia di Brindisi, dove era nato nel 1946 da due contadini legati da un vincolo di parentela. Preso il diploma all’Istituto Tecnico decise perciò di tentare una sorte migliore a Roma.
“Fu nelle notti insonni/ vegliate al lume del rancore/ che preparai gli esami. / diventai procuratore /per imboccar la strada /che dalle panche d’una cattedrale / porta alla sacrestia /quindi alla cattedra d’un tribunale, /giudice finalmente, / arbitro in terra del bene e del male.”
Come il nano di De Andrè anche Domenico Semeraro desiderava di diventare pretore. Trovò lavoro invece nella segreteria dell’Istituto Tecnico di Cinematografia Roberto Rossellini. Fece la controfigura di un bambino (era infatti affetto da un nanismo di tipo proporzionale) in “Non si sevizia un paperino”, scabrosissimo film di Lucio Fulci del 1972, scomunicato dalla Chiesa. Cominciò poi ad insegnare applicazioni tecniche in tre suole medie, e i giornali andarono ad intervistarlo come il più piccolo professore d’Italia. Ma anche questo suo secondo lavoro si interruppe, ufficialmente a causa di un brutto esaurimento, ufficiosamente per via dei tentativi di abuso fatti dal professore verso alcuni ragazzi.
Rimase a Semeraro solo la sua grande passione: la tassidermia. Vicino al suo appartamento in via Castro Pretorio 30 aprì un laboratorio, l’Igor Taxidermist, dove impagliava soprattutto animali di piccole dimensioni, cosa che gli riusciva benissimo grazie alle sue mani molto piccole.
Era un “imbalsamatore”, proprio come quello del film che ha reso celebre Matteo Garrone. Questo riferimento non è un caso però: tutto nella storia di Domenico Semeraro sembra essere una sceneggiatura scritta, una vicenda inventata, un racconto grottesco che si intitola “Il nano di Termini”.
Era questo il soprannome con cui era conosciuto in quel luogo, in quel suo piccolo regno Domenico Semeraro. Negli anni ’80 la stazione ferroviaria di Termini, di notte, era un luogo losco, con un grandissimo giro di prostituzione maschile: lì Semeraro adescava giovani ragazzi per veloci avventure, che amava fotografare in pose pornografiche. Usava per loro appellativi assurdi, Az, Titti, Ciuffi, come se parlasse dei suoi animaletti. Fondamentalmente era un bisessuale che usava il sesso in sostituzione dell’amore che probabilmente nessuno aveva mai provato per lui, era un mezzo per legare a sé le persone e per dimostrare a se stesso, al suo ego smisurato, di essere migliore degli altri. Semeraro era infatti un uomo colto, intelligente, di grandi capacità.
Un altro mezzo per attirare i giovani erano gli annunci su Porta Portese per cercare degli aiutanti. Così aveva “catturato” il Sorcio. Il Sorcio era il ragazzo tutto-fare di Semeraro, un assistente così efficiente da ricevere in premio un Ciao, una Vespa e vacanze in Puglia con il suo capo. Un ragazzo giovane e bello.
Non bello però quanto Armando Lovaglio. Ecco il secondo protagonista della nostra storia: un diciassettenne dall’aria efebica, non effeminato, bellissimo, descritto nel diario sul computer di Semeraro con “denti bianchissimi come panna nel mezzo di un dolce di rosee fragole il tutto tra una chioma di nero crine. Un volto da leggenda.” Iniziò a lavorare all’Igor Taxidermist nel 1986, e subito Semeraro provò per lui un’attrazione folle, lo adorò, lo ricoprì di regali: vendette il Ciao e la Vespa del Sorcio per comprargli una Honda Nsf 125; lo ospitava in casa ogni volta che il ragazzo litigava con il padre, con cui aveva un rapporto difficile; gli faceva da insegnante e da mentore, tanto che Armando lasciò la scuola; lo presentava a tutti come suo nipote. Un amico, un padre, un amante. Armando, infatti, pur non essendo omosessuale, doveva stare al gioco e lasciarsi amare nel solo modo che il nano conosceva: fotografie oscene e pose scabrose. Ma Armando non rimaneva lì solo perché attirato da quei lussi che un ragazzo della sua estrazione non poteva permettersi: la personalità dominante, avvolgente del nano soggiogava la sua, debole e fragile. Gli scriveva, infatti, Semeraro: “Ricorda che è prematuro fare da solo, sei ancora così fragile, come una giovane pianta esposta al vento, senza il supporto a sostegno.” Soggiogazione favorita e appesantita dalla droga, che Semeraro forniva ad Armando.
Questa situazione rimase invariata per un anno, poi qualcosa cambiò.
Nel 1987 una nuova segretaria venne assunta nel laboratorio: Michela Palazzini, sedici anni, bionda, esile, carina, con un padre attore mai presente e una madre legata a un nuovo compagno. Diversamente dagli altri ragazzi, Michela era forte, non disposta a farsi manipolare da quel piccolo uomo che non suscitava in lei alcuna attrazione ma repulsione e non per l’aspetto fisico, ma per la sua torbidezza, per la cattiveria che sembrava emanare. L’odio era reciproco.
Nonostante questo, il legame che univa i tre personaggi era morboso: festini osceni, vacanze a base di sesso e droga, foto volgari e scabrose. Ma poiché “dal letame nascono i fior”, sempre per citare De Andrè, visto che davvero Domenico Semeraro sembra essere uno dei ritratti disegnati dal cantautore genovese, fra i due bellissimi giovani, Armando e Michela, nacque un sentimento puro, spontaneo e tipico della loro età, che portò alla nascita di una bambina.
Il mondo di Semeraro, la sua piccola scenografia costruita pezzo per pezzo, arricchita dalle piccole figurine da lui manovrate, fotografate, amate, crollò. Un’insignificante ragazzina gli stava portando via il suo amico, suo figlio, il suo amante. Semeraro, disperatamente, provò di tutto: sostenne di avere legami con la malavita, raccontò di aver sciolto una volta nell’acido un giovane prostituto che non lo voleva più, minacciò di pubblicare tutti gli scatti pornografici che aveva fatto ai due ragazzi, giurò ad Armando che lei lo tradiva con altri uomini, che aveva avuto rapporti anche con lui e che la bambina era figlia di qualcun altro, tentò anche di violentare Michela. Dalle minacce passò alle suppliche e scrisse al ragazzo una lunga lettera, uno straziante sfogo d’amore e d’odio insieme: gli diceva che lo considerava un traditore e un vigliacco, gli ricordava tutti i vantaggi che avrebbe perso abbandonandolo, lo immaginava senza denaro, brutto, secco, con gli occhi spenti, e poi lo descriveva quando stava con lui, in sella alla sua moto, i capelli al vento, vestito elegantemente.
Non ci fu nulla da fare. I due ragazzi lasciarono l’impiego, Armando tornò a scuola e i suoi genitori denunciarono Semeraro per plagio.
L’amore, ancora una volta, si era dimostrato la cosa più forte di tutte, più forte dei regali, più forte del sesso, più forte delle minacce e delle suppliche?
Un’affermazione così scontata, chiara, decisa non si adatta bene alla vita reale. Armando era incerto: nonostante tutto non riusciva a staccarsi da Semeraro: per esempio trascorse tutta una notte in casa sua a consumare sostanze stupefacenti quando nacque la bambina, e il mattino dopo non andò a riconoscerla; un’altra notte decise addirittura di partire per Ostuni con Domenico. Il perché questo viaggio non avvenne, è cronaca. Cronaca nera.
26 aprile 1990, 3:15, via Castro Pretorio 30. Michela con un taxi raggiunge Armando a casa di Semeraro; saputo dallo stesso Semeraro della partenza il giorno dopo per Ostuni, vuole portare via il fidanzato. La situazione è tranquilla, Armando sta riparando il motorino; l’arrivo di Michela genera la discussione e la discussione degenera; Armando va in frigorifero e prende qualcosa da bere. Mentre Armando è piegato verso il frigorifero arriva Semeraro, armato di un bisturi; Michela grida e Armando si difende scaraventando Semeraro a terra; i due lottano, Michela spaventata fugge; Armando afferra Semeraro per il collo, con il bracco destro, tenendo con il sinistro il foulard che Semeraro è solito portare al collo; lo strangola; ancora furioso Armando tempesta di calci e pugni il piccolo corpo; Michela citofona per sapere come stanno le cose, a un poliziotto che le è passato accanto dice di essere in quella strada per esercitare la prostituzione; Armando dice di aver ucciso Semeraro e Michela sale ad aiutarlo; in un sacco della spazzatura mettono il cadavere, in un altro lo straccio usato per pulire il sangue, un pezzo di giornale sporco e le pantofole di Semeraro; Michela chiama i genitori di Armando per chiedere le chiavi di una villetta che hanno a Palombara Sabina, ma i Lovaglio decidono di avvertire le forze dell’ordine; Armando e Michela caricano i sacchi sul furgone, vanno verso Lunghezza e li abbandonano in una discarica, nella degradata borgata di Corcolle.
26 aprile 1990, 14:00, borgata di Corcolle. Avvertiti da una telefonata anonima i carabinieri della Compagnia Roma Centro trovano, dietro una montagna di terra e calcinacci, un fagotto della spazzatura da cui spunta un piccolo piede; all’interno il cadavere di un nano, sui cinquant’anni, un braccio ripiegato sul petto, contusioni al viso e le mani sporche di terra, indossa una felpa verde, pantaloni color carta da zucchero e un foulard di balenciaga a pois, stretto attorno al collo.
13 maggio 1991, processo di primo grado, corte di Assise di Roma. Armando Lovaglio, reo confesso, viene condannato per l’omicidio di Domenico Semeraro a quindici anni di reclusione con un’attenuante: potrà scontare la pena agli arresti domiciliari; Michela Palazzini, riconosciuto solo il concorso in occultamento di cadavere, è condannata a un anno di reclusione con i benefici della sospensione di pena.
Processo di secondo grado. Stessa condanna per Lovaglio, mentre Michela è condannata a nove anni e nove mesi per concorso in omicidio.
1993, cassazione. Michela assolta, condanna nuovamente confermata per Armando.
“E allora la mia statura/ non dispensò più buonumore/a chi alla sbarra in piedi /
mi diceva Vostro Onore, /e di affidarli al boia /fu un piacere del tutto mio, /prima di genuflettermi /nell’ora dell’addio /non conoscendo affatto /la statura di Dio.”