Vignettopoli
OGM: il cibo di Frankestein?
Tutti noi abbiamo sentito parlare di OGM: organismo geneticamente modificato,l’OGM è un essere vivente cui è stato variato, attraverso moderne tecniche di ingegneria genetica, il proprio genoma al fine di produrre in esso una o più nuove caratteristiche.
L’argomento ha creato, negli ultimi decenni, enorme scalpore. Paradossalmente, nemmeno il disastro di Chernobyl è riuscito a determinare nell’opinione pubblica un’ostilità nei confronti del nucleare analoga a quella esistente verso gli organismi transgenici.
La differenziazione del patrimonio genetico è un fenomeno di per sé spontaneo. Le cosiddette “biodiversità” ne sono il frutto: una specie di “capriccio” della Natura che comporta – e ha comportato – quelle peculiarità che caratterizzano il mondo animale e vegetale sul globo terrestre.
Fino a quando la modificazione genetica avviene naturalmente, nessuno ha nulla da dire; quando, invece, è frutto di studi e ricerche (anche costosissime) ecco il diffondersi del terrore. In Italia le voci in materia sono contrastanti, e quella dei “no a tutti i costi” prevarica sulle altre. Nella nostra bellissima nazione i concetti di rischio – beneficio, cultura scientifica e validità statistica vengono, sovente, dimenticati, lasciando ampio spazio a culture di pensiero, completamente astratte.
Tutto ciò che riguarda innovazione scientifica e tecnologia, oppure – peggio – impatto ambientale inesorabilmente, in Italia, subisce due destini: o l’argomento viene completamente ignorato oppure, peggio, viene drammatizzato. Non è trattato scientificamente, sulla scorta di un’analisi attenta dei pro e dei contro, bensì è snaturato da un concettualismo morale e etico che, incredibilmente, blocca qualsivoglia tipologia di innovazione, lasciandoci sempre in coda rispetto a Paesi che, invece, si sviluppano, a vista d’occhio.
La nostra è una questione di mentalità: una mentalità chiusa, troppo populista e altrettanto troppo arretrata e “prepotente” da essere urlata in piazza. Il criterio dominante è quello del “conflitto ideologico”a suon di grida e striscioni: un’idea che allontana la reale importanza della tematica che è di interesse comune, globale e non nostro esclusivo.
“Nel 1992 la FAO stimò in oltre 800 milioni le persone prive di adeguato accesso al cibo e, quindi, soggette a mal nutrizione, malattia e morte prematura. Sedici anni dopo la situazione è rimasta uguale, anzi, il rialzo dei prezzi alimentari porterebbe la cifra dei malnutriti a 1 miliardo”.
In un momento, come quello attuale, in cui, evidentemente, siamo in crisi alimentare a causa della produttività dei raccolti che aumenta a un ritmo dell’ 1% l’anno, insufficiente a coprire una domanda in sempre più forte crescita, si dovrebbe cercare di comprendere come l’introduzione degli OGM potrebbe costituire una valida soluzione.
Incominciamo con il chiarire un concetto, che, in modo deformato e deformante è strumentalizzato a suffragio dei NO. OGM non significa, necessariamente, organismo modificato attraverso l’inserimento nel patrimonio genetico di geni esterni. Anzi le moderne e costose nuove tecnologie – quelle di seconda generazione – sono riuscite, dopo anni di studio a modificare il genoma di alcuni esseri viventi semplicemente variandone il DNA, senza, quindi, nulla togliere e nulla aggiungere. Gli ingegneri, hanno solamente, aiutato la Natura accelerando, probabilmente, ciò che, in tempistiche più lunghe, sarebbe avvenuto spontaneamente.
Emblema di questo contrastato argomento è un’erbetta insignificante, ma dal nome difficile da ricordare: la arabidopis thaliana.
È una pianticella di altezza compresa tra i 10 e i 50 centimetri, che viene generalmente usata per compiere studi relativamente agli organismi geneticamente modificati.
Questo vegetale, dalle foglie ovali e con le inflorescenze a grappoli è stata scelta dagli studiosi per due motivi: il primo, di carattere pratico, il secondo, sicuramente, più tecnico e scientifico.
La arabidopis thaliana, viste le sue dimensioni, relativamente piccole, è ideale per crescere e svilupparsi in spazi ristretti come i laboratori o le serre degli studi di ricerca.
Dal punto di vista scientifico – sperimentale, il piccolo vegetale possiede una duplice peculiarità: occorrono, solo, sei settimane affinchè passi dalla germinazione a che divenga adulto e produca semi propri. Inoltre, possiede un genoma dalle dimensioni contenute: circa 125 milioni di paia di neuclotidi, in solo cinque cromosomi.
Gli ingegneri genetici hanno dimostrato che inibendo il gene denominato AtMYB60 presente in natura nel DNA della pianta, la stessa cresce in modo analogo ma consumando il 30% di acqua in meno, rispetto al suo fabbisogno “naturale”.
Oppure, attivando al massimo un altro gene, la piantina si sviluppa anche su terreni salini, cosa che non potrebbe succedere in natura.
Senza essere ingegneri o scienziati è facile comprendere come, attraverso queste sofisticate tecniche, vegetali che hanno bisogno di ingenti quantità di acqua potrebbero anche, essere coltivati in luoghi dove questo bene è carente; oppure, in questo modo si possono creare, “semplicemente” vegetali che necessitano di meno acqua per svilupparsi (ricordiamoci che l’ 80% delle nostre risorse idriche finiscono all’agricoltura); oppure, ancora, altri vegetali che su certe tipologie di terreno non attecchirebbero, attraverso la manipolazione genetica sarebbero in grado di ambientarsi e crescere.
Il biotech, quindi, se non fosse così tanto ostacolato, sarebbe in grado ad esempio, di rispondere alle necessità, sempre più pressanti ai Africa e Asia, che vivono l’inesorabile ed inarrestabile processo di desertificazione delle aeree agricole.
Inoltre, se ci pensiamo, i contadini potrebbero, tranquillamente, essere paragonati seppur in possesso di mezzi più semplici ai supercevelli della biogenetica. Gli agricoltori, magari inconsapevolmente, sono fautori, da anni, di manipolazioni genetiche. Affidandosi al loro intuito unito all’esperienza quasi generazionale, hanno creato ad esempio il mapo, un frutto nato da un ibrido. Incrociando la pianta del mandarino con quella del pompelmo hanno creato un casereccio OGM che tutti mangiamo e che nessuno mai ha condannato.
La biogenetica fa la stessa cosa ma avvalendosi di procedimenti e tecniche, oltre che costose, un tantino più sofisticate. Questo lo condanniamo.
Il problema “non è la tecnologia, ma l’uso che se ne fa”: se riuscissero a modificare la pianta dell’arancia affichè i frutti contengano maggior concentrato di vitamina C che male ci sarebbe. Certo, diverso, sarebbe se gli studi fossero incentrati per aumentare gli effetti allucinogeni della marjuana.
Fin dalle origini, l’uomo è stato chiamato a ricavare sostentamento e nutrimento da vegetali ed animali, tanto è vero che sin dalle sue origini l’essere umano ha sempre – inconsapevolmente – modificato geneticamente ciò di cui si nutriva, perché i frutti non erano commestibili, perché erano troppo piccoli oppure perché necessitavano per crescere, di spazi talmente ampi da rendere difficile il raccolto, oppure ancora perché il fusto era talmente esile da non poter reggere la pianta.
L’uomo, magari, solo per una buona dose di fortuna o per naturale spirito di sopravvivenza ha sempre creato OGM e nessuno lo ha mai condannato. Nella civiltà moderna, dove il contadino è stato affiancato – nemmeno sostituito – da un ingegnere genetico ecco l’urlo allo scandalo.
Occorrono anni e anni di studi e di ricerche per creare gli OGM. Allora perché bloccarli ad ogni costo? Il problema, anche se la nostra bocca è ancora piena, già lo abbiamo, perché aspettare fino a quando diventa urgenza globale?
Perché i fautori del no non pensano sulla base dei dati di fatto: in America i cibi transgenici sono la norma; in Cina si sta studiando il riso OGM, l’Africa sta studiando vegetali che crescano quasi in assenza di acqua e noi? Noi? Per gli italiani gli OGM sono il cibo di Frankestain.
Finchè ci saranno “gli spaghetti cun la pummarola in coppa” può darsi,… ma poi?