Vignettopoli
Via Poma 18 anni dopo. Forse la svolta?
Roma. Le nuove tecnologie investigative, quelle che vediamo nelle immagini di alcune serie televisive americane, non sono apocalittiche invenzioni cinematografiche. Non è fantascienza. Sono applicate nella realtà e funzionano, anche a distanza di tempo, dando risultati sorprendenti e permettendoci di affermare che non è più vero che un delitto, o lo risolvi nelle 24 ore o non lo risolvi più. Un piccolo, insignificante tassello di una porta dell’immobile di Via Poma, oggi, potrebbe rappresentare la soluzione del caso. In quel piccolo pezzetto di legno rimasto, per anni, negli archivi delle Forze dell’ordine è “intrappolata” una striscia ematica. È l’ultimo reperto, è l’ultima speranza che, con le nuove tecnologie in uso, potrebbe diventare, davvero, l’ultimo atto del delitto di Via Poma.
Nel DNA contenuto in quel sangue è racchiuso un prezioso segreto: il nome dell’assassino di Simonetta Cesaroni e la risposta agli innumerevoli quesiti, fino ad oggi, rimasti irrisolti. Simonetta Cesaroni era un’impiegata dattilografa. All’epoca dei fatti aveva 21 anni, le vacanze alle porte, tutta una vita davanti a sé. Invece, per una serie di circostanze non ancora chiarite, venne ritrovata morta alle 23:20 di martedì 7 agosto 1990, in Via Poma – scala B – appartamento nr. 7, 3° piano, presso la sede dell’Associazione Italiana Alberghi Della Gioventù (AIAG). È riversa, supina, nell’ultima stanza a sinistra dell’ufficio. Ha i capelli scomposti, il volto reclinato a destra, il braccio sinistro proteso verso l’alto, il destro leggermente piegato con la mano infilata tra i piedi della sedia sotto la scrivania. Il corpo di Simonetta è martoriato: ha numerose ferite al petto e una alla gola. L’assassino le lasciò indosso solo un paio di calzini bianchi, un reggiseno a balconcino, un top e l’orologio. Non sono stati più ritrovati gli slip, la maglietta, dei soldi, un anello, un braccialetto, un girocollo e le chiavi dell’ufficio. Si apre così il giallo di Via Poma. Nel 1990 non esistevano, ancora, le moderne tecnologie in uso oggi, ma ciò non toglie che, all’epoca dei fatti le indagini furono svolte in modo approssimativo e incerto. A tal proposito, vogliamo riportare le parole del padre di Simonetta, risalenti all’anno 2000. Claudio Cesaroni che chiese l’archiviazione dell’inchiesta giudiziaria sull’omicidio di sua figlia, invitando l’allora Ministro delle Giustizia – Piero Fassino – ad ordinare un’ispezione amministrativa “perché, in tutto il procedimento ci sono stati errori, omissioni e depistaggi che devono essere scoperti e chiariti”. Cesaroni era convinto che le indagini erano state svolte per “coprire la responsabilità di qualcuno” e si dichiarava, per questo “sfiduciato per la mancanza di volontà da parte della magistratura e della polizia di trovare l’assassino che è rimasto così ancora sconosciuto e libero di circolare”. Gli esperti che vengono chiamati sulla scena del crimine, di solito sono come quelli che vediamo alla televisione: portano una tuta bianca, guanti in lattice e una mascherina. Questi Professionisti hanno un gravoso compito, quello – come si dice in gergo – di “congelare” la scena del crimine. Muovendosi come chirurghi, in una sala operatoria, il loro compito è quello di trovare, analizzare e catalogare ogni minima traccia – nessuna esclusa – che è possibile reperire sul luogo in cui si presume, sia stato commesso un crimine. Tutto ciò perché”in tutti i delitti, ogni criminale lascia una traccia, una prova, che lo lega alla sua vittima. Quella traccia, bisogna trovarla, saperla riconoscere. Perché fu proprio lì sulla scena del crimine”. Gli inquirenti, giunti sul posto notarono: – La porta dell’appartamento non fu forzata. – La porta dell’appartamento fu trovata chiusa, con 4 mandate – L’appartamento venne trovato quasi del tutto privo di tracce di sangue. – Nello sgabuzzino furono rinvenuti alcuni stracci per le pulizie, ancora umidi – Non vi erano segni di colluttazione, né segni di strofinamento del corpo, né di gocciolamento.
– Sulla porta della stanza dove fu ritrovato il cadavere vi erano strisce di sangue sulla maniglia e nella parte di legno da entrambi i lati. – La stanza di lavoro della Cesaroni, quella nell’altro corridoio in fondo a destra aveva il computer ancora acceso, due ventilatori accesi, la tastiera del telefono sporca di sangue.-Sul telefono venne rinvenuta un’impronta palmare – Sulla scrivania della stanza della Cesaroni fu rinvenuto un biglietto con la scritta “CE DEAD OL” oppure “CE DEAD OK”.- Fu rinvenuta una pizzetta intatta che come consuetudine la Cesaroni portava con sé per merenda.
– Sul pavimento posto in prossimità del corpo fu rinvenuto abbondante liquido ematico essiccato che si era raccolto in una sorta di “pozza” sotto il corpo di Simonetta. – Il pavimento posto in prossimità del capo mostrava impronte rosacee nastriformi e serialmente semicircolari, come per parziale detersione. Questi gli elementi “macroscopici” che furono trovati sulla scena del crimine, e visibili ad occhio nudo. Ma, purtroppo, pensiamo noi, per mancanza di strumentazioni adeguate, nessun altra “prova” organica di importanza fondamentale fu evidenziata o catalogata tra i “reperti” di Via Poma: niente capelli, peli, saliva o qualsivoglia altro tipo di sostanza di quel genere.
Analizziamo ora, qualcuno di questi elementi, da cui presero vita le lunghe indagini che ci conducono ai giorni nostri.
1) La porta dell’appartamento di Via Poma non fu forzata. Simonetta quel 7 agosto 1990, come sempre, era sola negli uffici dell’AIAG e soprattutto quegli uffici erano chiusi al pubblico. Allora l’assassino aveva le chiavi e aveva sorpreso la Cesaroni mentre stava lavorando? Oppure Simonetta, di sua volontà accolse, ignara il suo carnefice? Fu fatta un’ipotesi dagli inquirenti, sulla scorta della testimonianza rilasciata dal Colonnello Giovanni Danese del SIOS, che quel giorno si trovava in attesa dell’auto di servizio sotto la sua abitazione di Via Poma 4. Il colonnello fu avvicinato da un ragazzo “affrettato, spiccio e che arriva subito al sodo” che gli chiese dove fossero gli ostelli della gioventù. Questo ragazzo, di cui fu fornito un identikit diramato su tutti i giornali, vi si recò e circa dopo dieci minuti – alle 16.10/16.30 – il Danese lo vide uscire. Chi era questo ragazzo? Gli inquirenti non diedero nessuna importanza a questa figura. Allora come fece l’assassino ad entrare negli uffici dove lavorava Simonetta?
2) La porta dell’appartamento fu chiusa con 4 mandate. L’assassino chiuse la porta con 4 mandate prima di uscire indisturbato, dallo stabile di Via Poma? Presumibilmente, potrebbe essere accaduto questo, visto che tra gli effetti di Simonetta mancavano anche le chiavi dell’ufficio. Oppure, aveva un complice che aveva le chiavi e che non solo ha chiuso l’ufficio, ma lo ha anche aperto? O forse, la porta venne chiusa proprio per far pensare questo?
3) Non vi erano segni di colluttazione, né segni di strofinamento del corpo, né di gocciolamento. Presumibilmente Simonetta fu uccisa nella stanza in cui fu trovata e non fece nulla per difendersi dall’aggressore. Come mai la Cesaroni non tentò nemmeno per un attimo di strapparsi dal suo triste destino? Forse conosceva il suo carnefice?
4) L’appartamento venne trovato quasi del tutto privo di tracce di sangue nello sgabuzzino furono rinvenuti alcuni stracci per le pulizie ancora umidi. Questi furono gli indizi che spinsero gli inquirenti a seguire la pista e per questo, tutti i sospetti caddero sul capo a Pietrino Vanacore. La pista della “pulizia professionale” poi ritenuta insostenibile. Infatti, il Vanacore fu scarcerato dopo 20 giorni di fermo.
5) La stanza di lavoro della Cesaroni, quella nell’altro corridoio in fondo a destra aveva il computer ancora acceso, due ventilatori accesi, la tastiera del telefono sporca di sangue. La tastiera del telefono era sporca di sangue di gruppo indefinito “dqalfa4/4” la vittima aveva gruppo A dqualfa 4.4. Era quello di Simonetta oppure del suo carnefice? Il mistero rimane. Così come, inizialmente, fu avvolto dal mistero anche quel computer acceso, su cui la Cesaroni stava lavorando. In un primo momento la società informatica, incaricata dal magistrato che si occupava delle indagini – il PM Settembrino Nebbioso – di stabilire l’ora esatta in cui Simonetta avrebbe acceso il PC per avvalorare o meno, gli alibi degli indagati, decretò che la macchina fosse stata accesa alle 16.37. Ma nel 1996 (sei anni dopo) da una nuova perizia svolta su quel Pc emerge che la macchina in dotazione all’AIAG non aveva l’inserimento automatico dell’orario di accensione, ma quello manuale. In altre parole chiunque avrebbe potuto inserire l’orario trovato (le 16.37) anche l’assassino stesso. Inoltre, sembrerebbe che la società informatica interpellata dal PM Settembrino fosse la medesima che all’epoca dei fatti aveva rapporti con i Servizi Segreti civili (ndr. SISDE). Ma non è tutto. I servizi segreti comparirebbero anche nell’assetto societario dell’AIAG che, nonostante le continue smentite dei dirigenti, l’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù sembrerebbe, proprio, essere una struttura coperta dal SISDE. Allora aveva ragione l’oramai defunto padre di Simonetta Cesaroni che riteneva che si stesse coprendo qualcuno? Simonetta nello svolgimento del suo lavoro stava scoprendo qualcosa di scomodo? 6) Sul telefono venne rinvenuta un’impronta palmare oggi questo importante elemento delle indagini sembra essere scomparso. Di chi era l’impronta rimasta impressa su quel telefono? Andò persa? Non se ne parlò più. 7) Sulla scrivania della stanza della Cesaroni fu rinvenuto un biglietto con la scritta “CE DEAD OL” oppure “CE DEAD OK”. Il significato di questo strano biglietto fu decifrato dalla ditta Data General (cfr. “ce dead ok”). La stessa azienda che aveva fornito i computer all’ufficio sito in Via Poma. È una delle frasi di impiego del PC. La scritta “ce dead” appariva sullo schermo per indicare all’operatore che occorreva, per procedere, l’inserimento di una parola chiave. Anche in questo caso successe qualcosa di strano. Indipendentemente dal significato che potesse avere la frase, su quel foglietto scarabocchiato con un disegnino di un pupazzo venne fatta una consulenza tecnica grafica. Non venne però fatta alcuna consulenza dattiloscopica per rilevare eventuali impronte digitali e/o palmari. Almeno questo è quanto si sa ad oggi. Come mai tutti gli elementi da cui si sarebbero potute evincere impronte digitali e/o palmari non furono prese in considerazione e addirittura, una di queste, l’unica rinvenuta, sembra non sia più negli archivi delle Forze dell’ordine?
In quegli anni non si riuscì ad addivenire ad alcuna conclusione per “mancanza assoluta di prove addebitate” agli indagati, oppure, aveva ragione il padre di Simonetta?
Sul corpo di Simonetta Cesaroni, come da prassi, fu compiuta un'”accurata” autopsia. Ma anche in questo caso, sembra che accadde qualcosa di strano. Con ogni probabilità Simonetta fu uccisa da un forte colpo alla testa: uno schiaffo o un pugno. Il corpo fu ritrovato martoriato da 30 coltellate, che secondo gli inquirenti furono inferte quando la Cesaroni era già morta: una sorta di “depistaggio” che l’assassino avrebbe voluto inscenare per allontanare gli inquirenti dalla verità. Non sono risultati segni di difesa. Simonetta aveva le mani curate: le unghie erano lunghe e perfettamente smaltate. Non risultano segni di violenza sessuale, pur con beneficio del dubbio, perché non necessariamente un rapporto sessuale comporta erezione e/o penetrazione completa con eiaculazione. Il suo corpo è rinvenuto martoriato da 30 ferite, inferte attraverso l’uso di un’arma contundente. Presumibilmente, non un coltello, ma qualcosa dotato di lama non propriamente tagliente, con i lati bombati, che è penetrata per causa da attribuirsi ad una punta aguzza unita ad una certa pressione esercitata sulla stessa: probabilmente un tagliacarte. Infatti, le ferite avevano forma fusiforme, differente profondità e i margini presentavano evidenti segni di contusione, il che supporta la tesi del tagliacarte o, di un oggetto simile, la cui lama non taglia ma penetra per effetto pressorio. Simonetta presenta 6 ferite sul volto, 1 ferita che esce da parte a parte sul collo, 8 ferite in zona toracica, 14 ferite in zona addominale e pubo-genitale. In tutto 29, ma per gli inquirenti 30, perché quella ferita trafossa ha evidenziato un taglio in entrata e uno in uscita. Nel cavo gastrico, fu rinvenuta una poltiglia semifluida, che verosimilmente sarebbero i resti del pranzo che Simonetta avrebbe consumato tra le 13:30 e le 13:40. Non fu mai rilevata la temperatura corporea sul cadavere di Simonetta. A quando risale l’ora della morte? Il mezzo più idoneo è, appunto, quello della “tecnica del raffreddamento corporeo” in sede di sopraluogo. È oramai noto che il raffreddamento del cadavere non segue le leggi fisiche di Newton. In altre parole in un essere inerte la degradazione termica è direttamente proporzionale alla differenza di temperatura tra il corpo e l’ambiente esterno; in un cadavere la produzione di calore corporeo continua fino a che non cessano i processi metabolici in atto nelle singole cellule. Come mai una prassi, in uso ancora oggi, non venne considerata e messa in pratica? Nel 1990 gli inquirenti sostennero, in base alle analisi compiute, più o meno attendibili, che Simonetta Cesaroni morì alle 17:30 di quel 7 agosto. Nel 2004, quando furono riaperte le indagini su un caso considerato dalla Magistratura “chiuso senza soluzione” si stabilì, analizzando quella poltiglia alimentare del cavo gastrico di Simonetta, che la Cesaroni morì almeno un’ora e mezzo prima. Infatti, intorno alle 14:00 aveva mangiato solo due cucchiai di riso e mezza pizzetta e due ore sono sembrate un lasso di tempo troppo lungo per digerire un così frugale pranzo. Ecco allora rimettersi in discussione i vari alibi dei sospettati. Primo fra tutti quello di Busco, fidanzato di Simonetta. Raniero Busco sostiene che quel 7 agosto del 1990 rincasò nel tardo pomeriggio per cambiarsi prima di prendere turno all’aeroporto di Fiumicino, dove, tuttora è impiegato. Nulla di certo sulle prime ore del pomeriggio. Busco – testimone la madre – sostiene di essere stato a lavorare nell’officina sotto casa per riparare un motorino di un amico. Lo stesso amico che nel 2006, durante un interrogatorio, sostenne, contrariamente a ciò che aveva detto prima, che si era confuso. Il motorino riparato non fu ritirato quel 7 agosto ma qualche giorno dopo, perché in quel funesto giorno, era fuori Roma al funerale di una zia. Il certificato di morte lo conferma.
Nel 2004, su sollecitazione dei familiari di Simonetta, che non si ritenevano per nulla soddisfatti di come erano state seguite le indagini, la Magistratura riapre il caso. Tutti i reperti furono inviati ai RIS di Parma. Oramai, sembra impossibile agli inquirenti poter analizzare materiale organico, prezioso, come sudore, saliva, capelli o peli. Il D.N.A. deve essere estrapolato da altre sostanze in possesso. Ai RIS di Parma giungono tutti i reperti del caso di Via Poma: la borsetta di Simonetta, l’orologio della donna, un ombrello, un tavolino, un quadro con un taglio nella parte superiore del retro e un tagliacarte. Su nessuno di questi oggetti viene rinvenuto nulla di importante per la soluzione del caso. L’attenzione degli esperti del Nucleo Investigativo di Parma, si sposta quindi sugli indumenti lasciati sul corpo di Simonetta Cesaroni: i calzini, il reggiseno e il corpetto di pizzo. Proprio su questi ultimi viene rilevata una preziosa traccia di materiale organico: sul top di pizzo ritrovato e sul reggiseno indossati dalla sventurata ragazza, era rimasta una traccia di saliva. Era quella dell’assassino? Per sei volte fu fatta l’analisi sul DNA contenuto in quella saliva e per 6 volte il risultato fu il medesimo: si trattava di un “DNA misto” e conteneva un profilo maggioritario femminile – presumibilmente della stessa Cesaroni – e un profilo, minoritario, maschile – presumibilmente quello del suo assassino. Non essendoci una banca dati del DNA da cui poter evincere direttamente la corrispondenza di quello del corpetto e del reggiseno, la Magistratura riconvoca gli inquisiti, gli amici e i conoscenti della Cesaroni, le persone che abitavano lo stabile o che comunque, in qualche modo potevano recarvisi. In tutto 31 persone. Con diverse modalità, venne “estratto” da questi soggetti il DNA. Furono analizzati: 4 mozziconi di sigaretta, 14 bicchieri di plastica, 4 tazzine del caffè, 8 bicchieri di vetro e, persino, 3 boccagli ell’etilometro. Da uno di questi oggetti, precisamente, da una tazzina di caffè – reperto nr. 89 – fu ricavato quel DNA che risulta essere di tipo analogo a quello rinvenuto sul top e sul reggiseno della Cesaroni.
L’analisi del DNA (acido desossiribonucleico) è una prova, considerata, “schiacciante” per gli inquirenti in quanto permette di escludere o confermare che un determinato reperto biologico (nel nostro caso la saliva) appartiene ad un certo individuo. Questo perché è statisticamente improbabile (fatta eccezione per i gemelli identici) trovare due persone al mondo che abbiano lo stesso DNA. Nel caso del delitto di Via Poma le indagini sono proseguite e quel DNA era di Raniero Busco. Il fidanzato di Simonetta, l’uomo con cui aveva un rapporto controverso, l’uomo che non aveva un alibi “di ferro” per le prime ore di quel pomeriggio del 7 agosto 1990. Altre testimonianze furono raccolte, attraverso l’udizione di nuovi testimoni, nuove persone che per la Magistratura avrebbero potuto “sapere” qualcosa in più su quel funesto episodio.
Raniero Busco era il fidanzato di Simonetta, all’epoca dei fatti. Il loro, da quanto affermato dal Busco stesso, non era un rapporto equilibrato. Lui nutriva solo affetto per Simonetta, lei ne era innamorata e per questo pretendeva un maggiore coinvolgimento. A prescindere da questo, però, rimaneva il fidanzato, quindi nelle indagini questo non era un dato da trascurare. In qualsiasi momento di intimità tra i due, normale prassi in una coppia, la sua saliva poteva essere stata lasciata sul corpetto o sul reggiseno. Tra i “nuovi soggetti” implicati nelle indagini una testimonianza fu predominante: il corpetto di Simonetta quel 7 agosto era pulito. In più, secondo i verbali raccolti in quel lontano 1990, Raniero Busco aveva affermato di avere visto Simonetta due giorni prima. Quindi, possibile che Simonetta nel caldo e assolato agosto romano, avesse indossato lo stesso corpetto e lo stesso reggiseno?
L’estate scorsa Raniero Busco fu iscritto nel registro degli indagati. Ma, se quel DNA fosse stato di un altro uomo il caso sarebbe stato definitivamente chiuso e risolto. Appartenendo al fidanzato, quindi, a una persona intimamente legata alla vittima, le indagini sono proseguite. Gli inquirenti hanno, nuovamente, posto l’attenzione su quelle tracce di sangue che furono raccolte quel lontano agosto di 18 anni fa. In particolare su quello sbafo rinvenuto sulla porta dell’immobile di Via Poma. Su quel tassello che, oggi, potrebbe rappresentare la soluzione del caso. Inizialmente, le indagini condotte, su quella scia ematica giunsero alla conclusione che si trattava di una traccia di DNA mista: ovvero in quel DNA vi erano geni di tipo femminile, appartenuti a Simonetta e altri di tipo maschile. In quel periodo il maggiore sospettato era Pierino Vanacore, il portiere dello stabile, colui che avrebbe aiutato l’assassino a “pulire professionalmente” la scena del delitto. Ma, ai tempi le indagini si basarono su dati poco precisi, forse per la mancanza delle tecnologie, di cui attualmente la polizia scientifica ha in uso oggi. Gli inquirenti, infatti, si basarono sul fatto che dall’analisi di quel DNA era emerso che il sangue era tipo “0+”. Simonetta Cesaroni aveva quel gruppo sanguigno, Pietrino Vanacore pure, così come altri 20 milioni di italiani. Pietrino Vanacore, oramai è uscito, da tempo di prigione, dalle indagini e persino dall’immobile di Via Poma. Oggi, quella traccia ematica mista ritrovata su quel tassello, restringe il campo delle indagini: è una traccia mista, analoga a quella rilevata dalla saliva sul reggiseno e sul corpetto di Simonetta. È una traccia, che, dopo 18 anni è sicuramente deteriorata, ma che con le moderne tecnologie in uso potrebbe rilevare qualcosa di sconcertante: il nome dell’assassino di Simonetta Cesaroni.
Quel sangue, seppur non v’è certezza matematica, potrebbe a questo punto puntare in modo certo sul fidanzato di Simonetta? Un’equipe di esperti sta ancora lavorando, la Procura ha interpellato anche una Dottoressa Spagnola, esperta nell’analisi del DNA Maria Victoria Lareu Hiuidobro che proprio in questi giorni ha giudicato, nuovamente, che dall’ulteriore consulenza voluta dalla Procura di Roma quel DNA è “neutro” ossia che non esclude, ma nemmeno afferma la compatibilità e il profilo genetico del Busco. Per l’Avvocato di Busco l’esito cui sarebbe giunta la consulenza della biologa spagnola, se confermato, è una conclusione estremamente confortante per Raniero. Il nostro consulente mi ha informato del deposito della perizia della Professoressa Lareu Hiudobro. In sostanza giunge alla conclusione che il profilo genetico ricavato da quella striscia di sangue non è attribuibile a Busco, nel senso che potrebbe essere compatibile con il DNA di tantissime persone e quindi si tratta di una traccia inconcludente: attendiamo ora con fiducia l’esito delle indagini”.
Una consulenza, invece, che per il legale della famiglia Cesaroni dissiperebbe ogni dubbio: “conferma tutti i dubbi che avevamo”. La perizia dei RIS di Parma aveva evidenziato la presenza di 8 alleli (componenti dei cromosomi che formano il DNA) parzialmente attribuibili al profilo di Raniero Busco. Sembrerebbe che entro la fine del mese di agosto, a 18 anni di distanza, la Procura di Roma abbia ipotizzato la chiusura delle indagini. Per ora il dubbio rimane. Per ora il giallo di Via Poma è ancora un caso Irrisolto. Ma, il caso di Simonetta Cesaroni, contiene in sé un’amara certezza: non esiste un omicidio perfetto… ma per questo solo il 18 agosto potremo sapere se questa certezza sarà palesata dagli organi competenti, oppure, se si dovrà catalogare anche questa vicenda come l’ennesimo “delitto perfetto”
- VIA
- Silvia Vimercati