MIGIROUNFILM
Baby Boom
J.C.Wiatt è un’affascinante e scaltra manager di una grande azienda pubblicitaria di New York, soprannominata “la tigre” proprio per la sua straordinaria capacità di concludere in modo vincente grandi trattative d’affari.
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Una personalità nevrotica, la cui esistenza è improntata a ricalcare il modello del successo fallico: devozione alla carriera ricalcando i comportamenti maschili, come le cene di rappresentanza, o le riunioni fuori dall’orario di lavoro, con il capo dell’azienda e i clienti più prestigiosi. La vita della manager cambia di punto in bianco non appena le viene chiesto di prendere in affidamento la figlia di suo cugino, improvvisamente deceduto in un incidente stradale, la bambina ha appena un anno e si chiama Elizabeth.
L’atteggiamento iniziale della donna verso la bambina è di totale rifiuto, si rende conto che il ruolo di “mamma” non fa per lei e cerca di trovarle una famiglia surrogato, ma i colloqui con i vari aspiranti genitori non la convincono. E’ come se nella loro stravaganza e freddezza emotiva, rilegga inconsciamente i propri oggetti cattivi interni che non vuole affrontare. Non sappiamo nulla del passato della protagonista, ma dal suo comportamento è facile immaginarla sola in una grande villa a fare i compiti, circondata da eccelsi dipinti e da genitori assenti ai suoi bisogni affettivi. La bambina intelligente che non si sente amata, diventa una donna di successo. Ed è per la sete di potere che nella prima fase del film, J.C. si ostina a far coincidere entrambi i ruoli di manager a tempo pieno e madre di Elizabeth, ottenendo scarsi risultati. Il conflitto con l’azienda diventa aspro quando scopre che un giovane collega le ha fregato il posto di comando, con l’appoggio del capo, viene surclassata a seguire un settore meno brillante.
La tigre ferita ed ammaccata da tanta irriconoscenza, prende armi e bagagli e si trasferisce nel Vermont. L’abbandono del posto di lavoro, è una scelta difficile per J.C. ma necessaria poiché le persone e i modelli di comportamento con cui si identificava quotidianamente, pur essendo sempre gli stessi, non sono più elementi digeribili dal suo apparato psichico. Gli oggetti psichici buoni e gratificanti (il rapporto di amicizia con il datore di lavoro e l’ammirazione di tutto lo staff) sono diventati oggetti distruttivi e inaccettabili (l’arrivo del collega arrivista, il voltafaccia del datore di lavoro). J. C. non riesce a gestire il rifiuto, e preferisce allontanarsi fisicamente dall’ambiente “nemico” perciò fonte di stress.
Nel Vermont, J. C. inizia una nuova vita, compra una casa e si dedica ad Elizabeth. Questa fase non è scevra da complicazioni, visto che almeno inizialmente la brillante ex donna d’affari, alle prese con una gigantesca casa che necessita di continue riparazioni, ha un crollo emotivo, che si manifesta con qualche crisi isterica. E’ il prototipo della donna in ciarr iera, che lavora settanta ore alla settimana, e fa il suo lavoro meglio di qualsiasi uomo con cui dovrà mai competere.Dopo essersi rifugiata per anni nella carriera, ora deve affrontare il più difficile dei compiti, fare la madre, senza soccombere allo stress da casalinga. Ma per comprendere il significato psicologico del “dopo-Vermont”, mi soffermo sull’aspetto centrale di questo film, il più problematico e conflittuale, altro non è che la dedizione patologica alla carriera.
L’ordine maniacale del suo appartamento, il tailleur grigio perfettamente stirato, la lettura dei documenti di lavoro perfino nel letto, danno l’idea di una donna robot, la quale ha relegato la sua emotività femminile in una piccola stanza buia, chiusa a chiave. Nel Vermont, tutto ciò che la razionalità aiutata da un efficiente Super io, aveva soppresso riemerge. L’amore per Elizabeth e il coinvolgimento sentimentale con il veterinario del paese, danno inizio alla metamorfosi psicologica della protagonista. Una rinascita della passione e della creatività, tanto che J.C. inventa una conserva di frutta per bambini che va a ruba, e da qui crea un’impresa di prodotti genuini per l’infanzia.
Il successo è tale che la società di New York per la quale lavorava, la convoca per offrirle su un piatto d’argento l’acquisto della sua “country baby”, un appetitosa e super pagata offerta che J.C. saggiamente rifiuta. La protagonista, resta nel Vermont, dove ha conquistato finalmente un equilibrio fra essere donna ed essere madre, un rapporto più armonioso con se stessa e con gli altri.
Suggerisco questo film a un pubblico esclusivamente femminile, le donne della nostra generazione che devono fra quadrare bilanci emotivi, familiari ed economici, mantenendo sempre il sorriso. Un compito arduo, stimolante e spesso sorgente di stress. La vicenda di J.C. solleva alcune riflessioni, sebbene ambientata alla fine degli anni Ottanta, il conflitto della donna fra realizzazione emotiva e aspirazioni professionali, mi sembra ancora molto attuale.
Le difficoltà che incontra la protagonista nell’ambiente di lavoro, una volta entrata nello status “donna che lavora e madre”,come il maschilismo dei colleghi e l’impossibilità dell’azienda ad adeguarsi a ritmi lavorativi più femminili, ci permette di essere in sintonia con i problemi della donna qualunque. Nella fase iniziale del film, l’eccessiva dedizione al lavoro a discapito di una vita privata e di una soddisfazione di bisogni femminili, dipingono il ritratto di una donna che rincorre il successo perché: a) imprigionata in un modello maschile, dominante nel mondo del lavoro; b) prova piacere nell’essere considerata una donna in gamba e intelligente ; c) teme di affrontare i suoi bisogni più profondi.
Ecco alcune domande sulle quali riflettere dopo la visione di “Baby Boom”:
1) Mi sento spesso oppressa dagli impegni lavorativi?
2) Cosa pensano di me i miei colleghi di lavoro?
3) Sento che manca qualcosa nella mia vita, ma non so cosa?
4) Immagino me stessa in situazioni vincenti, o in cui vengo elogiata da tutti?
Dr.ssa Nerina Zarabara Psicologa
Per info e consulenze: nerinazarabara@gmail.com