Il Lettorante
Barthes e il bambino che disegna sulla sabbia
Tra il 15 aprile e il 3 giugno del 1979, Roland Barthes scrive il suo ultimo libro, La camera chiara,- Nota sulla fotografia, pubblicato da vivo. Egli morirà il 26 marzo del 1980, quasi un anno dopo. Il 25 ottobre 1977 muore l’amatissima madre. E’ la morte che è la presenza prossima a Barthes in questo torno di tempo e che è presente nel suo libro, che appare essere come un “canto funebre” dedicato appunto alla scomparsa materna e quasi un annuncio della sua prossima. Esce proprio 30 anni dopo il suo, postumo, “Journal de deuil”, il diario tenuto subito dopo la scomparsa della madre. Tra il 15 aprile e il 3 giugno del 1979, Roland Barthes scrive il suo ultimo libro, La camera chiara,- Nota sulla fotografia, pubblicato da vivo. Egli morirà il 26 marzo del 1980, quasi un anno dopo. Il 25 ottobre 1977 muore l’amatissima madre. E’ la morte che è la presenza prossima a Barthes in questo torno di tempo e che è presente nel suo libro, che appare essere come un “canto funebre” dedicato appunto alla scomparsa materna e quasi un annuncio della sua prossima. Esce proprio 30 anni dopo il suo, postumo, “Journal de deuil”, il diario tenuto subito dopo la scomparsa della madre.
Che cosa è la Fotografia, che cosa è una fotografia? Che cosa è la “unicità”? (Diciamo subito che in questo testo non compare il nome di Walter Benjamin, ma siamo certi che la lettura dei suoi testi- “Piccola storia della fotografia” e, ancor prima “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”- avrà offerti alla riflessione che Barthes va qui conducendo). In effetti, questo libro, che studia il mezzo tecnico fotografico, attorno alla sua riflessione, avanza l’ipotesi di una “nuova scienza” (p. 10, edizione Einaudi, Torino, 1980, cui ci riferiamo), che chiama, in latino, “mathesis singularis”. La “mathesis universalis”, cartesiana e leibniziana, scienza della certezza e dell’universalità, è la scienza che Barthes vuole sostituire e propone, per l’avvenire, una modalità di calcolo che ruoti infinitamente intorno a una singolarità. Questa scienza “nuova” parte da una posizione di “protesta di singolarità”, e cita Nietzsche qui, di cui, implicitamente propone una lettura anti-cartesiana e rivolta a un rilancio della “individualità” singolare. E, in effetti, si tratta di un libro dalla coloritura assai nietzscheana, dell’ultimo Nietzsche, quello, in particolare di Ecce homo. Cerchiamo di capire quale sia il carattere di questa nuova scienza, dunque. Andiamo a p. 16. Scrive Barthes: ” ( la “vita privata” altro non è che quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto. Ciò che devo difendere è il mio diritto politico di essere soggetto)”. E’ questa un’affermazione scritta tra parentesi, che appare allora quasi secondaria e che noi invece cogliamo come punto centrale per la nostra riflessione che pone un poco di lato tutta la grande riflessione diretta di Barthes stesso sulla fotografia. Ciò che qui Barthes sottolinea è il fatto che con l’avvento della fotografia-e poi della cinematografia, fino a facebook- si assiste a una restrizione della “vita privata”, dello “spazio” in cui una persona non diventa un oggetto di immagine. Vita privata è, per Barthes, quello spazio in cui è possibile rimanere “soggetto”, ossia, in cui non c’è alcun meccanismo di presa della propria immagine, in cui non si è oggetto di riproducibilità – certamente lo sguardo dell’altro è come un obbiettivo, ma non ha la capacità di “mummificare” e di rendere riproducibile materialmente, se non nel modo indiretto del ricordo, il soggetto- e dunque in cui si rimane “singolare”, unico. Se così è, allora, il luogo in cui sarà possibile una “mathesis singularis”, questa “nuova” scienza, sarà lo spazio della “vita privata”, che non corrisponde affatto ai quattro muri di casa, ma a tutte quelle “situazioni” di vita in cui c’è l’assenza di una “presa” di un obbiettivo, o di un computer (internet, fecebook, eccetera). Tutto il libro, infatti, è un “canto” all’oggetto unico, all’unicità, in particolare della madre, appena morta. A p. 20, Barthes riprende il tema che stiamo inseguendo nel suo libro, e scrive: “Io ho sempre avuto voglia di argomentare i miei umori; non già per giustificarli: e ancor meno per riempire con la mia individualità la scena del testo; ma, al contrario, per offrire, per porgere questa individualità a una scienza del soggetto (corsivo nostro), il cui nome ha per me poca importanza, purché pervenga (il che non è ancora certo) a una generalità che non mi riduca e neppure mi annienti”. Qui, Barthes indica una strada- che dobbiamo fare risalire a Nietzsche, un certo Nietzsche, forse l’ultimo – che è quella di una nuova soggettività; non più il soggetto sovrano, consistente, marmoreo, classico, un soggetto che “posa” e che dunque è disponibile all’obbiettivo, anche nella “vita privata”, ma un soggetto “umorale”, che non si sente in dovere di “giustificarsi”, che non aspira a stare al centro della scena, che non ha bisogno, allora di nessun pubblico, che, al contrario, “offre”, “porge” la sua individualità, senza imporla. Allora la “scienza del soggetto” qui proposta da Barthes è una scienza che si caratterizza per una connotazione di donazione, di offerta- qui facciamo un nome che dice tutto: Derrida. Si tratta, allora di una scienza “aristocratica”, di nobiltà, nel senso nietzscheano del termine, ancora una volta.
E tuttavia, proprio nel momento in cui Barthes traccia i contorni di questa “nuova” scienza, fondandola, però su di un’analisi della fotografia da un punto di vista del “fruitore” soprattutto, dello “spectator”, egli appare a noi come l’ultimo grande autore, studioso di queste cose, precedente all’era di internet e di facebook. Paradossalmente, nell’epoca in cui, all’apparenza, siamo entrati in una dimensione in cui il “privato” sembra scomparire, proprio l’individuazione di una “scienza del soggetto” a venire può aiutarci a trovare, nell’ambito dei “media”, uno spazio di “privato”. A patto di rinnovare il senso dei termini “privato” e “pubblico”. Dunque, Scrive Barthes: ” la cultura….è un contratto stipulato tra i creatori e i consumatori. Lo studium è una sorta di educazione (sapienza e cortesia)….”(p.29). Ecco; è nell’ambito della “educazione” che va ricercato un carattere della “nuova scienza” da applicare nei nuovi “media”. Educazione intesa come atteggiamento gentile, inteso come insieme di saperi appresi in società (scuola, famiglia, lavoro…). E’ proprio colui che appare essere il più “colto” nella capacità di “manipolare” i mezzi disponibili sul computer (immagini, video, testi, suoni…) con un atteggiamento soffice, mai “provocatorio”, che ha in se la forza per “giocare” con questi mezzi in tutta la loro potenzialità. La violenza, anche su internet o su facebook, non è mai rivoluzionaria. Lo è la “cortesia”, lascia intendere Barthes, il modo signorile e aristocratico del soggetto, che può avere la “chance” di ritagliarsi una nuova dimensione “privata” proprio nel cuore dei “media”. Lo “studium” di cui scrive qui Barthes e che rimanda allo “studio”, va inteso come nel senso di applicazione, di impegno nell’apprendimento, ma anche di conoscenza, di sapere. Altrove, Barthes affianca la parola “sapere” al termine “sapore”, “savoir/saveur/savor”. Ora, il sapore rimanda al gusto, alla scelta personale nella commistione degli ingredienti. Ebbene, è proprio questa capacità, di sapere insaporire il proprio “fare” con i “media” che chiama la possibilità di collocare il proprio “privato” nel pubblico dello “studium”. E questa facoltà “creativa”, dentro ai mezzi di comunicazione di massa, in particolare in facebook, è quanto è possibile in sommo grado, ora. Colui che costruisce il “link” più elementare, combinando insieme immagini di Chaplin, con una musica di Battiato e un testo di Dante, non si sente un piccolo artista, un “creativo” fatto in casa, e in questo egli non pone una modalità della “Mathesis singularis” di cui ha scritto Roland Barthes? Ritorniamo a questa “scienza”. Per Barthes, in una fotografia, “la Fotografia del Giardino d’Inverno, invece era effettivamente essenziale, essa realizzava per me, utopisticamente, la scienza impossibile dell’essere unico” (p. 72). Ora, se Barthes individua in una Fotografia (che egli scrive con la maiuscola) la realizzazione “utopistica” della scienza “impossibile” dell'”essere unico”, significa che egli individua nello “spazio fotografico” la possibilità che nel cuore della riproducibilità si situi la possibilità dell’irripetibilità. Egli capisce che sua madre, appena morta, è un essere unico, vedendo la sua immagine di bambina in una fotografia. Che cosa significa ciò? Significa che proprio nel cuore dell'”epoca della… riproducibilità tecnica” come scrive W Benjamin, si annida il “kairos” per l’individualità assoluta. Di essa Barthes ne fa esperienza proprio nel lutto, nell’incontro con la morte dell’altro; “…ciò che ho perduto non è una Figura (la Madre), ma un essere [corsivo nostro]; e non solo un essere, ma una qualità (un’anima): non già l’indispensabile, bensì l’insostituibile” (p. 77). Dunque, nonostante tutto, ciò che “non passa” attraverso i “media”, è la “qualità”, l’anima, l’essere di una persona, il “corpo” nella sua totalità. Ed è “il” corpo, questo corpo, che in ultimo la fotografia testimonia come essere vissuto, ma che non “vive”. E’ il tatto che resta fuori, il contatto. Proprio nel momento in cui la fotografia, l’immagine tecnica attesta che “là” c’è stata una presenza, quella “presenza” si sottrae, è assente. Allora potremmo dire che la “riproducibilità tecnica” si fonda obbligatoriamente sull’esistenza di “ciò che sta là”, ma insieme sulla sua assenza. Ora, ciò che è assente, che sta fuori dalla riproducibilità tecnica è il “privato”. Scrive Barthes; “l’età della Fotografia corrisponde precisamente all’irruzione del privato nel pubblico” (p.98). Qui pensiamo, Barthes intende per privato tutto ciò che non ha rapporto con la pubblicità, ovvero la quotidianità nella sua “banalità”. Prima dell’avvento della Fotografia, ciò che veniva raffigurato, in qualche modo, stava in rapporto con l’ufficialità. Ma, forse, non è casuale se la Fotografia è contemporanea in pittura del “realismo”, dell’Impressionismo. Le cose e la gente di tutti giorni compare nella “posa”. Ma Barthes scrive subito dopo: “Ma siccome il privato non è soltanto un bene (posto sotto l’egida delle leggi storiche della proprietà), siccome esso è anche e in più il luogo assolutamente prezioso, inalienabile, in cui la mia immagine è libera [corsivo nostro] (libera di annullarsi)…… io finisco col ricostituire, attraverso una necessaria resistenza, la separazione del pubblico e del privato: io voglio enunciare l’interiorità senza concedere l’intimità.” (p. 99). Che cosa sottolinea qui Barthes, con forza? Egli annuncia che è possibile, in una società dominata dai mezzi di comunicazione di massa, concepire “spazi di libertà” individuale. Questi spazi corrispondono a tutte quelle “situazioni” in cui il soggetto ha un’immagine “libera”, ossia estranea alla “posa”, a qualsiasi situazione, appunto, in cui sia presente un “obbiettivo”, o un meccanismo di riproduzione -di suono e ancor più di immagine-; fotocamera, video, cinema, “social network”…Dove sta la “potenza” della tecnica della riproduzione di massa delle immagini? Sta nella credenza che le immagini, poiché “fissano” una presenza, abbiano una consistenza maggiore dell'”essere” che essa riproduce. Un’immagine riprodotta può essere distrutta ma non può “annullarsi” da se, scomparire. Invece, l’immagine “libera” e individuale ha questo potere di “annullamento” di scomparsa nella sua unicità in cui risiede la sua libertà. Ora, questa apparenza di “fragilità” dell’immagine, paradossalmente sembra rifare la sua comparsa negli ultimi mezzi di comunicazione sociali: facebook, su tutti. In esso, scorrono continuamente i “link” e sembrano ben presto scomparire nel nulla. In realtà, sappiamo che tutto ciò che “qui” appare è passibile di rimanere nella memoria” mostruosa di questo “mezzo” e avere la forza di “testimoniare” di tutte le “presenze” accumulate in esso, inchiodando colui che vi accede a una specie di quasi eternità opposta proprio alla capacità di annullarsi, subito, che ha l’Immagine libera di cui scrive Barthes. Qui, davvero si è “immortalati”. Barthes conclude il suo aggio con queste parole: “Ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate, è che oggi ali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenza; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più “false” (meno “autentiche”)- cosa che, nella coscienza comune, noi traduciamo con l’ammissione di un’impressione di noia nauseante, come se universalizzandosi, l’immagine producesse un mondo senza differenze (indifferente), da cui può quindi levarsi qui e là solo il grido degli anarchismi, marginalismi e individualismi: aboliamo le immagini, salviamo il Desiderio immediato (senza mediazione)” (p.118-119). Questo gridi di Barthes di rivendicazione della “immediatezza”, del “contatto” diretto è un grido che dobbiamo tenere presente come contro bilanciamento nei confronti della potenza di “immediatezza” raggiunta da facebook. Certo, l’analisi di Barthes si ferma sulla soglia dell’arrivo di internet e dei suoi derivati. E’ come se egli, intuendo il salto nei confronti del “reale” e della sua manipolazione, raggiunto dall’avvento dei nuovi mezzi di “riproducibilità tecnica” (Benjamin) volesse metterci in guardia, ma non già per esorcizzarli o demonizzarli, ma per misurarsi con essi a partire da una consapevolezza e una “distanza” positiva. Come Barthes, dopotutto, ha “amato” la Fotografia, così noi possiamo appassionarci all’uso dei nuovi mezzi di “riproducibilità tecnica” consci che, infine, ad essi non appartiene, insomma, la “libertà, l’immagine libera, ma la possibilità di “giocare” e come il bambino che disegna sulla sabbia, di “cancellare” con un piede i disegni e di andare a tuffarsi nell’acqua.
*Foto Nez per Edizioni Damiano*
- VIA
- Roberto Borghesi