Vignettopoli
IN ATTESA DI UNA SINISTRA CHE CI RIPORTI TUTTI SOTTO LO STESSO CIELO
L’editoriale di Maggio, questa volta l’ha scritto un’amica, che da una splendida metafora, fa riflettere non solo il popolo della sinistra. Ve lo proponiamo… “Mio padre faceva un lavoro indecente. La mattina entrava in un posto incasinato stridente di ferraglia, si avvitava una chiave inglese ad una mano e con quella si dava da fare. A dire la verità non è che la dovesse tenere sempre incollata, ogni tanto la mollava e quella cadeva con un urlo di acciaio martoriando il piano di lavoro, il tempo di una sigaretta e poi se la doveva riappiccicare.
E questa cosa andava avanti sempre uguale fino a quando suonava la sirena e allora sgusciava fuori dalla tuta blu e veniva via da tutto quel metallo urlante. E a dire un’altra ulteriore verità quel postaccio sferragliante più che dargli l’angoscia era una rottura di coglioni, il che non è tanto terribile come stato d’animo, se pensi che l’angoscia ti gela le vene e la rottura di coglioni non sarà il massimo del divertimento, ma neanche è la fine del mondo. Nossignore, mio padre a lavorare non ci andava con l’angoscia, ci andava strafottente, con il manifesto sotto il braccio da attaccare in bacheca, a litigare con il delegato sindacale che nel 90% dei casi era da prendere a calci in culo, ma comunque stava sul pezzo. Ci andava fischiando, ad incontrare il destino comune di altri come lui infagottati di blu chiazzato d’olio.
Mia madre leggeva il mio futuro in un pezzo di carta incorniciato sul muro della mia cameretta, ci vedeva una scalata fino all’ultimo piano, alla conquista di un posto luminoso di vetro, poltrone di pelle e sfrigolii di invidia.
Invece quella promessa su pergamena l’ha mantenuta una società interinale che smista il mio tempo tra un call center e un supermercato e non faccio in tempo neanche a capire dove sta il bagno che già mi hanno fatto fuori. Oppure un ente pubblico che mi tiene precario per anni con l’illusione di una stabilizzazione, infranta con una legge voluta da uno è troppo basso per vedere l’avvilimento nei nostri occhi.
E quella morsa che la mattina mi sveglia non è ai coglioni, è alla gola, e non ci provo neanche ad andare al lavoro fischiando strafottente con un manifesto da attaccare in bacheca. Non ho niente da dire agli altri che io possa scrivere su un manifesto, il mio destino è il destino unico e irripetibile del precario, la mia sorte è individuale, è attaccata ad una scadenza su un foglio di carta che fissa patti diversi per ciascuno di noi che lavoriamo in questa stessa stanza. Non ci danno il tempo di riconoscerci come compagni di un’identica sventura di insicurezza, siamo come le foglie sugli alberi in autunno, ci stacchiamo uno alla volta. E’ il capolavoro del capitalismo più sfrenato: quello che ci unisce ci divide, ciascuno di noi ha il suo personale orizzonte offuscato e nessuno di noi vede in lontananza lo stesso sole.
Mio padre aveva un lavoro indecente, ma immaginava per sé e per gli altri uno stesso futuro.
Io sto con altri in una stessa stanza e non guardiamo insieme il firmamento: ognuno di noi ha la sua stella che a poco a poco si spegne.
Il mio lavoro è ancora più indecente.
E sto in attesa di una sinistra che ci riporti tutti sotto lo stesso cielo.
- VIA
- Lucia Del Grosso