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Er Fattaccio de Via della Magliana
L’esplicito riferimento del titolo a una delle poesie più famose della tradizione romanesca, “Er Fattaccio der Vicolo der Moro” di Americo Giuliani non è casuale: i due fatti di cronaca, anche se separati da 70 anni, sembrano essere uno lo specchio dell’altro. Alla Magliana era conosciuto come “er Canaro”. Perché nella Capitale c’era questa abitudine, ora dimenticata, di dare dei soprannomi a certi individui particolari, veri e propri personaggi di quartiere: alcuni di essi, quelli dei secoli scorsi, si sono trasformati perfino in maschere, “Rugantino”, “Meo Patacca”…I soprannomi potevano avere varie origini: un elemento del carattere, la professione, lo status sociale, un episodio particolare. Alla fine degli anni ’80 questa usanza sopravviveva nel quartiere periferico della Magliana, e “er Canaro” era un tizio che gestiva un negozio di tolettatura per cani, il Mambli, a via della Magliana 253: l’ingresso era al piano terra, dietro c’era un retrobottega con alcune gabbie pesanti di ferro che custodivano gli animali che andavano lavati, tosati o a cui dovevano essere tagliate le orecchie. Aveva 32 anni ed origini sarde; aveva una moglie da cui era separato e una figlia di sette anni. Era un uomo tranquillo, gentile, appassionato di moto, ma anche dedito agli “impicci”: qualche furtarello, piccoli spacci di cocaina, brutte frequentazioni nella malavita romana che, dagli anni ’70, dai tempi della Banda della Magliana, aveva in mano tutto il mercato della droga in città.
“Er Canaro” era il soprannome di Pietro De Negri, quello che ammazzò “er Pugile”.
“Er Pugile”, al secolo Giancarlo Ricci, 25 anni, era un capobranco alla Magliana.
“Se fece amico co’ / li più peggio bulli dell’urione / lassò er lavoro…. bazzicò Panico, / poi fu proposto pe’ l’ammonizzione.”
Spazzino della nettezza urbana, viveva di furti, spaccio, legami con la mala: nel maggio del 1986 due spacciatori gli avevano sparato un paio di colpi alle gambe per punirlo di un debito. Aveva avuto un breve trascorso di pugilato dilettantesco, ma più che altro era un pugile da strada, uno di quelli che “glie partiva de capoccia”, un bullo muscoloso e arrogante, temuto e odiato da molti, che si approfittava della debolezza del De Negri. Un rapporto schiavo-padrone, fatto di umiliazioni, soprusi, angherie, dove il pugile comandava e il canaro obbediva: pretendeva droga, soldi, qualsiasi favore.
Ma un giorno la situazione si spinse più in là: Ricci propose al De Negri di svaligiare il negozio di abbigliamento confinante con il suo, un colpo da cento milioni. Il colpo riuscì, ma il canaro, il primo ovviamente ad essere sospettato, venne arrestato; nei dieci mesi che trascorse in carcere non rivelò mai il nome del suo complice, ma Ricci, invece di essergliene grato, non solo non gli diede nulla della refurtiva, ma lo picchiò.
“Me fece ‘na risata in faccia: arzò le spalle, e poi me disse: – Senti, /senza che me stai a fa’ tanti lamenti / faccio come me pare! E poi de’ resto / si ‘nte va be’, nun me guardà più in faccia!”
Non fu però questo a scatenare la rabbia del canaro, ma uno sgarro molto più piccolo: un pomeriggio Ricci si presentò nella bottega del De Negri e gli portò via lo stereo.Ecco, la miccia che accese il nostro “cane di paglia”: la sua vendetta fu tremenda, sanguinaria, feroce, bestiale.
“Er Fattaccio der Vicolo der Moro” fu pubblicato nel 1917; “er Fattaccio” di via della Magliana avvenne il 18 febbraio 1988.
“Er Pugile”, accompagnato da un suo amico, Fabio “er Tossico”, che rimase ad aspettarlo in macchina, si presentò al negozio verso l’una, pretendendo come al solito della cocaina.
De Negri gli raccontò che stava aspettando a momenti una grossa partita di droga da uno spacciatore. Potevano improvvisare una rapina: Ricci si sarebbe nascosto in una delle gabbie e sarebbe saltato fuori all’arrivo dello spacciatore. Al pugile l’idea piacque. Ma appena si infilò nella piccola gabbia sotto al bancone, De Negri fece scattare la sua trappola: bloccò la serratura, aumentò al massimo il volume del nuovo stereo per coprire le urla da ossesso di Ricci, e per “calmarlo” gli buttò in faccia della benzina e accese un fiammifero. Ma Ricci, forte, rabbioso e terrorizzato, nonostante tutto riuscì a sfondare la gabbia e a metter fuori la testa. Il canaro allora lo prese a bastonate, tramortitolo lo tirò fuori dalla gabbia e lo legò al bancone del laboratorio con le catene che usava per i cani durante la tosatura.
E iniziò la tortura.
“Ah bojaccia!!!… infamone scellerato’… /(…) e me buttai /come ‘na ‘jena sopra a mi’ fratello: /j’agguantai la mano … e je strappai er cortello… /Poi viddi tutto rosso … e… menai… menai!!!…”
Con una cesoia gli amputò prima quattro dita e la lingua, poi le orecchie e il naso, e ancora le guance e pezzi di zigomo. Voleva farlo assomigliare a un cane. Una tirata di coca, un colpo di forbice. Dopo un’ora, De Negri si ricordò di Fabio, ancora nella macchina davanti alla bottega. Uscì, gli diede le chiavi dell’auto e gli disse di riportarla a casa, perché Ricci, avendo rapinato un “picciotto” mafioso, era dovuto scomparire dalla circolazione.
Quando “er Tossico” si allontanò, De Negri riprese il lavoro: tagliò le labbra e i genitali, e poi cauterizzò tutte le ferite con il fuoco. Ma alle 16 dovette interrompersi di nuovo: doveva andare a prendere sua figlia a scuola.
Poche decine di minuti dopo il canaro concluse l’opera: riempì occhi, bocca ed ano del Ricci di tutti quei pezzi di carne che gli aveva amputato, poi con un martello gli spaccò in due il cranio come fosse un melone maturo e negli squarci versò lo shampoo per cani, “per fargli schiarire le idee”… Buttò quello che rimaneva del corpo fuori dalla finestra, lo caricò in macchina e lo trasportò fino a via Cruciano Alibrandi, in zona Portuense.
Lì, in un terreno a ridosso della ferrovia, un deposito di rifiuti, una tana per tossicomani, un’alcova per gli incontri con le prostitute, un campo per il pascolo, lo abbandonò in un sacco dopo averlo bruciato. Non tanto però da impedirne il riconoscimento: voleva che fosse riconosciuto, che la sua vendetta fosse nota, che il quartiere lo vedesse come un giustiziere, in fondo forse voleva essere scoperto. Fu quel che avvenne infatti.
Il cadavere venne ritrovato alle ore 8e30 del giorno seguente dalla Polizia, avvertita da una telefonata anonima, e identificato dalle impronte digitali. Per ricostruire le ultime ore di vita della vittima vennero sentite 85 persone, fra cui Fabio “er Tossico”. Arrivarono così a De Negri, interrogato il 20 per confermare la versione di Fabio. Ma che avesse qualcosa da nascondere i poliziotti lo capirono subito: era ipereccitato, nervosissimo, lo sguardo folle e crudele. Il cestino dell’immondizia portava ampie tracce di cocaina, la bottega puzzava ancora di varechina, e le sue scarpe erano macchiate di sangue.
Bastò una frase: “Se sei un uomo dillo che sei stato tu” e una precisa descrizione delle motivazioni e modalità dell’omicidio si riversò sugli investigatori.
“Sor delegato mio nun so’ un bojaccia! /Fateme scioje… v’aricconto tutto… / Quann’ho finito, poi, m’arilegate: ma adesso, pe’ piacere!… nun me date / st’umiljazione doppo tanto strazio!…”
Nei giorni successivi De Negri scrisse anche un lungo memoriale, in cui sembrava che la sua vita avesse avuto come culmine questo delitto feroce.
Ma fra tutti i particolari che raccontava un dubbio non era chiarito, il dubbio più atroce: quante di quelle torture aveva dovuto subire Ricci da vivo? De Negri parlò di sette ore di tortura solo al termine delle quali Ricci era morto per soffocamento, e disse di aver assunto 50 grammi di cocaina per terminare il suo lavoro. Forse tutto il racconto era stato ingigantito, sotto gli effetti della droga e per mitomania. Forse la mattanza era durata molto meno; forse la cocaina ingerita non era una quantità così grande; forse, come sostenne il medico legale, già la prima forte botta in testa aveva ucciso Ricci.
Rinchiuso a Rebibbia De Negri attendeva il processo. Intanto sua moglie, Paolina, riallacciò i contatti con lui e riaprì il negozio alla Magliana. La madre del pugile, Vincenzina Ricci, non si diede pace: aveva fatto di tutto per salvare il figlio dalla droga, un ragazzo forte e generoso che proteggeva i più deboli, e ora chiedeva vendetta.
La perizia psichiatrica dichiarò De Negri non socialmente pericoloso, in quanto aveva agito solo per vendetta in condizioni di seminfermità mentale e sotto l’effetto di droghe: eliminato il soggetto della vendetta non avrebbe più ripetuto il reato. Il rilascio del canaro, il 12 maggio 1989, creò scompiglio e tensione alla Magliana: si diceva che gli amici del Ricci volessero vendicarsi, e Vincenzina lo cercava ovunque. Tensione aggravata dalle affermazioni di De Negri in un’intervista sul Messaggero, in cui diceva di non essersi pentito, anzi che alla Magliana avevano capito il suo gesto e lo ammiravano.
“Quello ch’ha pubblicato er «Messaggero» /sur fattaccio der vicolo der Moro /sor delegato mio… è tutto vero!! No p’avantamme, voi ce lo sapete, /so’ stato sempre amante der lavoro.”
Sei giorni dopo, De Negri fu riportato a Rebibbia e da là al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino: il giudice istruttore Maria Carnevale, smontati i risultati della perizia psichiatrica, aveva chiesto un rinvio a giudizio per il canaro, definendolo un paranoico socialmente pericoloso che aveva premeditato l’omicidio.
Nel processo di primo grado, iniziato il 22 gennaio 1990, De Negri non andò mai in aula: la paura per la rabbia della famiglia Ricci, la paura della televisione, la paura dei giornalisti. La corte, stavolta, lo condannò a 15 anni per omicidio e 5 per spaccio di stupefacenti: la nuova perizia psichiatrica diceva che l’omicidio era stato compiuto in uno stato solo parziale di incapacità di intendere e di volere e che quindi l’assassino era punibile. La sentenza venne pronunciata il 26 giugno 1990, lo stesso giorno in cui la redazione del Messaggero ricevette una lettera di Vincenzina Ricci:
“Caro signor De Negri, è arrivato il momento della tua condanna e vuoi sapere una cosa? Io sono felice malgrado la tua cattiveria. Tu ti senti un eroe, ma non sei che un povero stupido. Racconti un sacco di balle e ti senti un eroe. Ti basta questo per riscattare la tua vita da moscerino. Alla Magliana, dove tutti conoscevano sia Giancarlo sia te, sostengono che a uccidere mio figlio siano state altre quattro persone. A te hanno regalato il cadavere”.
Ecco, il sospetto che nacque nel corso delle indagini: non accordandosi le inconsistenti motivazioni e il fisico minuto e debole di De Negri con l’entità del delitto si pensò che fosse stato compiuto in accordo con la mala, per motivi di traffico di droga o per vendetta mafiosa, perché si diceva anche che Ricci fosse un informatore della polizia. Forse al canaro venne imposto di farsi la galera e starsi zitto, sotto la minaccia di uccidere sua moglie e sua figlia. Ma di questa ipotesi nessuno non si disse più nulla.
De Negri non si fece vedere neppure al processo di appello, ma scrisse anche lui una lettera per confermare la sua versione dei fatti:
“Non sono un bugiardo, tantomeno un pazzo allucinato e sanguinario. Questo si potrà semplicemente accertare e con assoluta certezza nel riesumare e riesaminare il cadavere di Ricci”.
Riconosciutagli l’aggravante della premeditazione, la sentenza dell’11 aprile 1991 lo condannò a 24 anni e la Cassazione, il 2 aprile 1993, confermò la condanna.
“Mannateme al Coeli”
Grazie alla buona condotta Pietro De Negri è uscito da Rebibbia 26 ottobre del 2005. Vive a casa, con la moglie e la figlia, seguito dai servizi sociali che gli hanno trovato un impiego da usciere in uno studio legale.