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FANTASMI A ROMA
A Roma, fra le vie, le piazze e i palazzi girano più fantasmi che gatti. Si dice “Chi nun more s’arivede”, ma qui “Chi more s’arivede”. Papa Alessandro VI Borgia, interrogato su quante dovevano essere le ombre che vagavano nell’Urbe rispose: “Quante le donne che tradiscono i consorti”. Lui stesso appare ancora oggi a piazza Farnese; chi l’ha visto dice che ha sempre l’aria un po’ imbronciata: deve essere ancora risentito per il fatto che le sue ossa, deposte nella chiesa di S. Maria Monserrato, furono confuse con quelle di suo zio, papa Callisto III.
Molti altri spettri illustri però si possono incontrare nella Capitale: il pittore romano Bartolomeo Pinelli va avanti e indietro su via del Lavatore per cercare quell’Osteria del Gabbione dove per fare bisboccia consumò tutti i suoi guadagni; Cola di Rienzo se ne sta sulla piazzetta dell’Ara Coeli; i carbonari Targhini e Montanari passeggiano con le teste in mano chiacchierando amabilmente nei pressi del Muro Torto, dove furono sepolti in terra sconsacrata; l’imperatore Nerone, passato alla storia come un uomo quantomeno originale, non si accontenta di un solo luogo: lo si può incontrare a Monte Sacro, a piazza Sempione, dove si tolse la vita con l’aiuto del liberto Epafrodito, o anche lui al Muro Torto, dove il suo corpo fu sepolto; talvolta si spinge fin sulla Cassia, quasi voglia vedere di persona il sepolcro di Publio Vibio Mariano, perché non si dà pace del fatto che i romani continuino a chiamarlo “tomba di Nerone”, quando quel luogo con lui non c’entra niente.
Ma fra tutti questi fantasmi ce ne è uno in cui nessun romano vorrebbe imbattersi mai: Donna Olimpia Maidalchini. Donna Olimpia, cognata di Papa Innocenzo X in quanto aveva sposato in seconde nozze il di lui fratello Panfilio Pamphili, ai romani non piacque mai. Pasquino di lei disse: Chi dice donna, dice danno – chi dice femmina, dice malanno – chi dice Olimpia Maidalchina, dice donna, danno e rovina. Le erano rimproverate la smodata ambizione, la smania di potere e di ricchezze (si diceva fosse arrivata a trafugare due casse di denaro nascoste sotto il letto di morte del cognato pontefice, di cui molti ritenevano fosse addirittura l’amante) e l’estrema prodigalità, caratteristica quest’ultima impopolare in tempi in cui il popolo affamato e pezzente riusciva a mala pena a sopravvivere. Ma Donna Olimpia non si curava dei pettegolezzi e delle maldicenze, nemmeno del soprannome che le veniva dato, la Pimpaccia, e regnò incontrastata sulla Roma di metà seicento. Una leggenda vuole che il 7 gennaio, giorno dell’anniversario della morte di Innocenzo X, un cocchio nero in fiamme, trascinato da quattro cavalli, parta da piazza Navona e al galoppo, attraversando Ponte Sisto, arrivi fino alla villa suburbana dei Pamphili a San Pancrazio, per poi sprofondare in una voragine aperta dai diavoli in quella che fino al 1924 era denominata proprio Via Tiradiavoli. Dentro la carrozza se ne sta la Pimpaccia e ride ancora di questi romani che, nonostante le astiose critiche e la malcelata antipatia, non riuscirono ad impedirle di occupare il posto di regina e papessa di Roma.
Locandina Fantasmi a Roma Le “fantasmesse” romane non sono da meno delle donne romane in carne ed ossa: hanno lo stesso ardimento, la stessa forza, la stessa vitalità perfino.Alle belle e chiacchieratissime Messalina ed Imperia, la prima, lasciva moglie dell’imperatore Claudio, la seconda, prorompente amante di Agostino Chigi, piace ancor oggi mostrarsi in pubblico, l’una sopra al Pincio, l’altra a villa Celimontana.
Ugualmente pecca di vanità l’anima dell’avvenente Costanza De Cupis, vissuta nel ‘600 nel palazzo De Curtis a via dell’Anima. Costanza era famosa nell’Urbe per la forma perfetta, quasi soprannaturale delle sue mani, di cui andava tanto fiera al punto di farne fare un calco in gesso. Era l’anno 1618 e “Bastiano alli serpenti”, il miglior formatore di Roma con la bottega in quella che è anche oggi via dei Serpenti, dal ritrovamento in quello stesso periodo della statua di Laocoonte avvolto dai serpenti, fu incaricato dell’opera. Il calco della mano fu esposto nella sua bottega, in una teca di vetro, adagiato su un cuscino di velluto, e suscitò la stupita ammirazione dei sempre più numerosi visitatori. Uno di questi, un canonico di San Pietro in Vincoli, pare che commentasse: “Questa bella mano, se è di persona viva corre pericolo di essere tagliata”. Presagio o anatema, poco dopo, mentre stava ricamando, Costanza si punse tanto profondamente un dito da causare un’infezione così grave che, nonostante la mano le fosse stata amputata, la giovane donna morì. Da allora, nelle notti di plenilunio, sul vetro di una finestra di quello che fu il suo palazzo, appare il riflesso della sua perfetta e bianca mano.
Altrettanto famosa per la sua bellezza, nonché per i suoi disinibiti costumi, era Lorenza Feliciani, passata alla storia come Serafina Cagliostro. A 15 anni, infatti era stata data in moglie a quello spregiudicato avventuriero e truffatore di nome Giuseppe Balsamo, ma più noto appunto come Alessandro, conte di Cagliostro, celebre in tutta Europa come alchimista, massone, esoterista, astrologo e guaritore: la bionda ragazza analfabeta era così passata dalla sua povera casa di Trastevere in via delle Grotte agli splendori delle corti europee, ed era perfino venerata come Gran Maestra della Loggia parigina di Iside. Ma il prezzo che pagava era alto: per raggiungere i suoi scopi, Cagliostro non esitava a spingere la moglie nel letto dei potenti, a mandarla a chiedere l’elemosina o a farla prostituire per soldi, quando ne erano a corto. Dopo tutta una vita di peregrinazioni, toccando vertici e abissi, nel 1789, di nuovo a Roma, Lorenza denunciò il marito al Sant’Uffizio. Cagliostro venne arrestato, processato e condannato per eresia. Fu portato nella Rocca di San Leo e calato nel “pozzetto”, una cella di dieci metri quadrati, senza porte, con solo una finestrella a feritoia chiusa che tre file di sbarre, e un tavolaccio su cui dormire. In queste condizioni disumane, sottoposto a frequenti sevizie da parte dei suoi aguzzini, Cagliostro, ormai pazzo, morì a 52 anni, il 26 agosto 1795. Ancora tormentato ma risoluto, lo spirito di Lorenza emerge nelle notti d’autunno da uno degli oscuri angoli di piazza Sant’Apollonia, dove sorgeva il monastero nel quale lei stessa fu rinchiusa dopo la denuncia, e silenziosamente, rasentando i muri, senza mostrare mai il suo volto, raggiunge piazza di Spagna e nel luogo in cui Cagliostro fu arrestato scompare, inghiottita da una chiazza d’ombra. Si ode allora una risata di scherno e un grido agghiacciante: “Lorenza!”
In mezzo a tante celebrità e belle donne, i poveri fantasmi comuni passano inosservati: un prete, colpito da una folgore dentro San Carlo a’ Catinari mentre pregava, si aggira ancora per la chiesa imprecando contro la sua mala sorte; lo spirito dispettoso di un altro prelato, fa lo sgambetto ai vecchi per farli cadere nel laghetto di Villa Paganini; a vicolo del Piede il vecchio sor Antonio lo sferruzzatore, come quando era vivo, lavora ancora a maglia e racconta ai bambini mirabolanti storie di briganti e tagliagole, storie che conosce bene, visto che in gioventù era stato il terribile brigante Gasparone.
Alcuni di questi spettri ignoti per far parlare un po’ di loro hanno deciso di unirsi in gruppi. Numerose sono le case romane infestate. Dai tetti del quartiere in stile anglosassone di Villa Torlonia i fantasmi lanciano tegole sulle teste dei passanti nell’ora del crepuscolo. Dalla casa del dottor Tromba, al numero 57 di via del Governo Vecchio, l’11 maggio 1861, volarono invece materassi, stoviglie e posate, sparendo una volta precipitati in strada. Ma ce ne è una in particolare di “casa degli spettri” che non ha nulla da invidiare ai castelli scozzesi. E’ Villa Stuart, a via Trionfale 5952, famosa in tutto il mondo. Emmeline Stuart, che acquistò villa e parco alla fine del secolo scorso, si dilettava in sedute spiritiche insieme a un suo parente lord Allen, finchè le presenze presero il sopravvento, facendo pian piano impazzire gli abitanti della casa: Emmeline vedeva ovunque una sorella morta da 20 anni, Lord Allen si intratteneva con demoni e spiriti e la servitù raccontava di ectoplasmi, sedie e tavoli danzanti. Ma la cosa più strana fu la fine del signor Allen: quando il lord inglese morì non ci fu alcun funerale, né venne scavata alcuna tomba. Un giorno Emmeline confidò ad un amico che ogni notte metteva la mano in un buco praticato nel muro della cantina e sentiva le dita di Allen stringere teneramente le sue. Morta anche Emmeline, quella parete venne abbattuta e al di là di esse si rinvenne in cadavere putrefatto del lord.
La morte co la coda (G.G Belli)
Qua nun ze n’ esce: o ssemo giacubbini,
o credemo a la lègge der Ziggnore.
Si ce credemo, o minenti o ppaini,
la morte è un passo che ve gela er core.
Se curre a le commedie, a li festini,
se va ppe l’ostarie, se fa l’amore,
se trafica, s’impozzeno quadrini,
se fa d’ogn’erba un fascio … eppoi se more!
E doppo? doppo viengheno li guai.
Doppo c’è l’antra vita, un antro monno,
che dura sempre e nun finisce mai!
E’un penziere quer mai, che tte squinterna!
Eppuro, o bene o male, o a galla o affonno,
sta cana eternità dev’èsse eterna!
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- Velia Viti
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