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L’Affaire Montesi: l’unica certezza è la morte.
Recentemente, più per suggestione che per reali analogie, si è tornato a parlare di quello che viene ricordato, ancora oggi, a più di cinquant’anni di distanza, come l’ affaire Montesi: un caso di cronaca nera che sconvolse l’Italia – anche – per il grande rilievo mediatico che suscitò. È il 30 gennaio 2000, sul litorale di Anzio, vicino Roma, viene ritrovato il cadavere di una donna rumena di 31 anni, morta suicida.
Per un attimo questo episodio ha riportato indietro la memoria agli inizi degli anni ’50, all’Italia del dopo-guerra.
È l’ 11 aprile 1953 Wilma Montesi viene ritrovata, cadavere, sul litorale di Torvaianica, vicino Roma.
Era una giovane e bella ragazza di ventuno anni , figlia di un falegname, che viveva insieme alla famiglia nelle case popolari di via Tagliamento, nel quartiere Trieste di Roma.
Una vita semplice la sua, senza grilli per la testa, improvvisamente spezzata da qualcuno di cui, ancora oggi, non è dato di conoscerne il nome.
Si apre l’affaire Montesi.
Wilma era uscita di casa nel tardo pomeriggio del 9 aprile: da allora non si ebbero più notizie di lei. Sembrava scomparsa nel nulla, fino a quando un manovale, Fortunato Bettini, nella mattinata dell’11 aprile 1953 la rinviene cadavere sul bagnasciuga di Torvaianica. Il corpo di Wilma giaceva supino sulla battigia, parzialmente immerso nell’acqua dalla parte della testa. Indossava, solamente, una sottoveste rammendata: sembravano spariti nel nulla la borsa, le scarpe, le calze, la gonna gialla che indossava al momento della scomparsa e quel “intricato gioco di gancetti” del reggicalze.
Quel reggicalze che infastidì, soprattutto la mamma di Wilma: un indumento che secondo le deposizioni della Signora Montesi “Wilma non si sarebbe mai tolta di sua spontanea volontà”. Siamo nel 1953 e le maglie attorno al senso del pudore erano molto strette. “Lo indossava allacciandolo sopra le mutandine, mi pare strano “ continua la Signora Montesi – “che se lo sia tolto e non so dare una spiegazione alla mancanza di questo indumento. Ho un sospetto, anzi ho pensato, che ci sarebbe una sola interpretazione: che Wilma sia stata avvicinata da un male intenzionato e sia svenuta per lo spavento. Di ciò avrebbe approfittato l’aggressore forse per violentarla”.
Ma, il 2 settembre 1954 i medici legali che sottoposero il corpo di Wilma ad autopsia ne renderanno noto il risultato rivelando che “il cadavere non presenta lesioni di origine vitale. Risulta, altresì che l’imene di forma anulare è integro, così pure la regione anale”. Dunque, Wilma Montesi quando è morta era ancora vergine.
Un mese più tardi, però, sul quotidiano L’Unità il Professor Pellegrini dichiarerà che “la sabbia trovata nella vagina non può essere altro che opera di un vizioso, poiché le onde del mare anche se violente, per la posizione dei genitali esterni, che sono protetti anteriormente e posteriormente, non possono immettere in vagina della sabbia e ancora meno in quantità così cospicua da intasare la vagina stessa”.
Allora, Wilma Montesi era vergine oppure aveva subito una violenza?
Famigliari, amici, parenti e il fidanzato, immediatamente, si apprestano a chiarire l’assoluta integrità morale di Wilma intanto, però gli inquirenti, cominciano a scavare nell’intimità della Montesi.
Subito dopo il ritrovamento del corpo la prima ipotesi fu di suicidio: Wilma si sarebbe gettata, volontariamente in mare, dove trovò la morte. L’ipotesi, venne quasi immediatamente accantonata perché secondo la deposizione di Wanda Montesi, Wilma soffriva di un fastidioso eczema ai talloni che veniva alleviato solo con l’acqua salata. Dunque ,quel pomeriggio del 9 aprile, sarebbe uscita di casa intorno alle 17.30 così come affermò la portiera dello stabile dove abitavano i Montesi, avrebbe preso il trenino che da Roma portava a Ostia, come affermarono alcuni testimoni che la videro, e qui avrebbe fatto un pediluvio.
Il pediluvio secondo l’allora Questore di Roma, Saverio Polito fu la vera causa della morte di Wilma Montesi. Il 16 aprile 1953 Polito fece una dichiarazione ai giornali, secondo cui “ il caso poteva ritenersi chiuso. Wilma Montesi era morta per una disgrazia, probabilmente in seguito ad un malore che l’aveva colta mentre faceva un pediluvio nel tardo pomeriggio del 9 aprile sulla spiaggia di Ostia per curarsi un arrossamento al calcagno. Ha avuto un malore in quel posto deserto e le correnti avevano trasportato il corpo fino a Torvaianica”.
Wilma Montesi era morta, dunque, per un pediluvio “azzardato nei giorni critici: una sincope provocata “dall’azione perfigerante dell’acqua di mare e dallo stato di debolezza indotto dalla sindrome premestruale”.
Wilma Montesi morta per un semplice pediluvio? La dichiarazione di Polito non convinse nessuno, anzi diede l’impressione che qualcuno avesse fretta di liquidare il caso.
Poi, se davvero Wilma si fosse assentata quel 9 aprile per un innocente pediluvio perché non avrebbe dovuto dire nulla alla famiglia?
Poi, ancora, se di pediluvio si trattava, che necessità c’era di togliersi anche il reggicalze?
Sulla morte di Wilma cominciano a sorgere una serie di interrogativi che rendono inaccettabile, l’ipotesi – alquanto bizzarra – di morte per pediluvio.
I giornalisti all’epoca dei fatti erano assolutamente liberi di muoversi in ogni dove, per cercare prove o testimonianze tra i corridoi dei commissariati, alle stazioni dei carabinieri, tra le stanze delle squadre mobili della polizia, persino nelle corsie degli ospedali: potevano fare i detective a tutti gli effetti.
Fu, proprio, la bagarre mediatica intorno alla morte di Wilma Montesi, a far nascere tra gli operatori dell’informazione l’idea di una sorta di autogoverno che limitasse l’ingerenza senza limiti di giornalisti in cerca di scoop. Da qui l’idea dell’ Ordine dei giornalisti che, ufficialmente, sarebbe stato istituito, dieci anni dopo, con la Legge 69 del 1963.
È il 4 maggio 1953, sul quotidiano Roma di Napoli, compare un articolo dal titolo Perché la polizia tace sul caso Montesi. Sarà il primo di una lunga serie.
Tra le colonne dell’articolo firmato da Riccardo Giannini, direttore del periodico di estrema destra Il merlo giallo, appare una maliziosa vignetta: un reggicalze – uno degli indumenti mancanti sul cadavere di Wilma – è portato in questura da alcuni piccioni viaggiatori. Evidente è il riferimento alla famiglia di Attilio Piccioni, Ministro degli Esteri e uno dei più importanti esponenti della Democrazia Cristiana di quel periodo.
Immediata, arriva il giorno dopo la smentita dalla Questura alle “voci relative al figlio di una nota personalità politica che si troverebbe coinvolto nella vicenda”. Il Corriere della Sera mette in evidenza la smentita diventando così, per l’opinione pubblica, innocentista. Mentre Paese Sera, di netto schieramento colpevolista quello stesso 5 maggio pubblica un articolo, in cui si legge “ gli indumenti intimi di Wilma Montesi sono stati consegnati dal biondino alla polizia. Il giovane sarebbe figlio di una personalità politica”.
Siamo a un mese dalle elezioni , in piena polemica per l’approvazione o meno della cosiddetta “legge truffa”, dunque per il Corriere della Sera, in un articolo del 6 maggio “non ci sarebbe da stupirsi se, come ritengono alcuni in questo momento di febbre elettorale si cercasse di servirsi anche di un argomento così pietoso ai fini della propaganda politica”.
Oramai, però, il nome di Piero Piccioni è sulla bocca del mondo giornalistico romano e non solo.
Lo nomina per primo Marco Cesarini Sforza, sul settimanale comunista Vie Nuove in un articolo datato 24 maggio 1953.
Piero Piccioni, musicista jazz e fidanzato di Alida Valli, querelò immediatamente il direttore di Vie Nuove, Fidia Gambetti, insieme al giornalista Cesarini Sforza. Secondo Piccioni il giornalista avrebbe dovuto ritrattare, ma soprattutto fare il nome di chi metteva in giro certe chiacchiere.
Cesarini Sforza, convocato a Palazzo di Giustizia, fu sottoposto ad uno stringente interrogatorio, ma la fonte non si poteva svelare ( forse era troppo vicina alla Dc di De Gasperi), altre prove non ce n’erano e in più il Partito Comunista non lo sosteneva.
Cesarini Sforza, cosa ben peggiore, in redazione fu tacciato di sensazionalismo una terribile prospettiva per un giovane giornalista che aveva bisogno di quel lavoro per campare insieme alla famiglia. Un amico lo ricorda come un uomo distrutto, ma aveva poco da fare. Consigliato anche dal padre, severo professore di Filosofia del diritto alla Sapienza di Roma che aveva conoscenze in campo politico “scelse” di ritrattare tutto attraverso un umiliante articolo in cui ammetteva l’infondatezza delle sue dichiarazioni. In segno di risarcimento alla famiglia Piccioni, il giornalista donò cinquanta mila lire alla Casa di Amicizia fraterna per i liberati dal carcere.
La querela cadde e con essa il silenzio sul caso Montesi.
Il mondo politico è scioccato per la sconfitta della DC, mentre la cronaca si sta occupando di altri casi come quello dell’ergastolano Carlo Corbisiero, riconosciuto innocente dopo diciannove anni di carcere o di Jolanda Bergamo una giovane domestica accusata, ingiustamente, dell’omicidio di una donna.
Il nome di Wilma Montesi, ricomincerà a riaccendere l’interesse mediatico il 6 ottobre 1953.
Silvano Muto, direttore di un rotocalco allora poco diffuso – Attualità – pubblica un articolo dal titolo La verità sul caso Montesi.
Muto, durante la sua indagine giornalistica, incontrò una certa Adriana Concetta Bisaccia, un’attrice che all’epoca arrotondava lo stipendio facendo anche la dattilografa. Secondo il racconto della donna pare che Wilma avesse partecipato, insieme a lei e ad altre ragazze, ad un’orgia a Capocotta, presso Castelporziano, luogo non distante da dove fu ritrovato il cadavere.
Durante questo festino, a cui era invitato anche Piero Piccioni, la ragazza avrebbe avuto un malore e alcuni dei partecipanti, spaventati, avrebbero portato Wilma, credendola già morta, sulla spiaggia di Torvaianica, nel luogo del ritrovamento.
A Capocotta c’era la riserva di caccia del marchese democristiano Ugo Montagna, che, secondo un rapporto stilato dai Carabinieri e gelosamente custodito con l’apposizione di “rapporto riservato” era uomo dedito a dare convegno a donne di dubbia moralità allo scopo di soddisfare piaceri e vizi di tante personalità del mondo politico.
Muto viene denunciato, dal Procuratore Capo di Roma, Angelo Sigurani per calunnia e diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico.
Durante il processo la Bisaccia, chiamata a testimoniare smentirà tutto accusando lo stesso Muto di voler fare a spese sue l’eroe nazionale.
Muto vorrebbe ritrattare: ancora non conosce il nome di una donna, che diventerà presto, il personaggio centrale dello scandalo. Una donna che il Procuratore capo, Sigurani, invece, aveva già incontrato due volte.
Il suo nome è Anna Maria Moneta Caglio.
L’Italia, intanto, comincia ad appassionarsi al “Caso Montesi”: indaga, sospetta, formula ipotesi, trae conclusioni. Non scordiamoci che, per anni, la cronaca nera è stata una lettura popolare, in grado di avvicinare alle istituzioni e alla vita democratica quelle che venivano definite “le masse” composte da ex emigranti e contadini al limite dell’analfabetismo.
Nel processo contro Muto, avvocato difensore del Piccioni è il “rampante” Giuseppe Sotgiu, presidente della Provincia di Roma, che punta la difesa sulle differenti ipotesi legate alla verginità della Montesi: quella del medico legale resa nota il 2 settembre del’ 54 e la contro – opinione del Professor Pellegrini apparsa sull’Unità.
L’intimità di Wilma Montesi è pubblicamente recisa e la sua moralità messa in dubbio.
Non solo quella della povera Wilma, ma anche della sorella Wanda: gli inquirenti, decisi a fare luce sul caso Montesi, sottopongono anche la sorella della vittima a imbarazzanti controlli ginecologici volti a dimostrarne la verginità e, quindi, l’estraneità di Wanda a eventuali coinvolgimenti durante i presunti incontri di Wilma.
Torniamo ad Anna Maria Moneta Caglio. Figlia di un notaio, soprannominata il “Cigno Nero”, per via del lungo collo e della sua abitudine di vestire sempre di nero, ed ex amante di Ugo Montagna.
Durante il processo a carico di Muto dichiarerà di avere scritto su un memoriale la verità sulla morte di Wilma Montesi. La prova della verità? Una telefonata a cui aveva assistito a casa del Montagna: Piccioni – come le riferiva Ugo – chiedeva al marchese di accompagnarlo dal Capo della Polizia, Tommaso Pavone, perché qualcuno lo stava incolpando per la morte di Wilma Montesi.
Piccioni, invece, sosterrà di non avere mai conosciuto una ragazza di nome Wilma Montesi.
Intanto, incominciano ad affiorare nomi importanti: quello di Amintore Fanfani, depositario del memoriale della Caglio, che lo trasmetterà al colonnello dei Carabinieri Umberto Pompei ordinandogli di fare luce sul caso Montesi; quello del Gesuita Padre Dall’Oglio, che ricevuta la confidenza della Caglio sulla pericolosità del memoriale le consiglierà di rivolgersi con fiducia alla polizia; quello del figlio dell’Onorevole Spataro; quello dell’archiatra pontificio Galeazzi-Lisi; quello del Papa a cui la Caglio inviò una copia del suo memoriale.
La Caglio intanto vive nascosta per paura di essere uccisa.
La gente comune – e non solo – si dimentica completamente della povera Wilma: l’attenzione è rivolta esclusivamente al “marcio” che la morte della giovane donna sta portando a galla.
L’affaire Montesi arriva in Parlamento: il Ministro Franz Turchi rivolge a Scelba, Presidente del Consiglio, un ‘interrogazione per sapere cosa intendesse fare per tranquillizzare Parlamento e opnione pubblica sulle perplessità suscitate dalla vicenda. Il deputato democristiano Falletti, invece, chiede a Scelba se non si possano prendere provvedimenti eventualmente mediante una più esatta qualificazione legislativa dei diritti e dei doveri della cronaca, in merito alla campagna di stampa sviluppata per inscenare, con pessimo gusto e scarsa attendibilità un caso scandalistico di rilievo.
La reazione di Scelba arriva il 6 marzo 1954, durante un suo intervento alla Camera, a seguito delle dichiarazioni della Moneta Caglio riguardanti il memoriale e i presunti incontri di Montagna e Piccioni con il capo della polizia Tommaso Pavoni. Il Presidente del Consiglio parla di facilità di guadagno e di torbide compiacenze amministrative. Nel contempo –aggiunge – vorremmo rivolgere un invito a tutti gli organi di stampa perché vogliano evitare che, attraverso la caccia al sensazionale, si finisce per elevare a sistema nella pubblica amministrazione, fatti che, sebbene gravi, rimangono episodici, con offesa a chi lavora onestamente al servizio dello Stato e della collettività.
Il giorno dopo, Tommaso Pavone rassegnerà le sue dimissioni a capo della Polizia. Mentre desta estrema e sinistra cominceranno dichiaratamente a strumentalizzare l’affare Montesi contro la Democrazia cristiana. Si crea una vera e propria bagarre politica a colpi di articoli e contro-articoli.
Con sempre maggiore insistenza si parla di dimissioni di Attilio Piccioni da ministro degli Esteri.
Intanto il 17 marzo su Paese Sera viene pubblicata una fotografia che immortala, insieme, Scelba e Montagna ( sig!) , testimoni di nozze al figlio di un altro democristiano, Giuseppe Spataro.
Il 21 marzo 1954 il Tribunale sospende il processo contro Silvano Muto e la Magistratura apre una formale istruttoria sulla morte di Wilma Montesi.
Arriva in scena Raffaele Sepe che presiede la sezione istruttoria della Corte d’appello di Roma.
Fa, comunque, perquisire la casa di Silvano Muto, si muove tra “ragazze del secolo”, uomini politici e personaggi come il Principe Maurizio D’Assia. Si muove in maniera tale da suscitare il plauso di chi lo incontra. Sul Corriere della sera si leggerà che “la fiducia che circonda il presidente Sepe autorizza a ritenere che egli non si fermerà a mezza strada”, a commento dell’iniziativa del Magistrato di far ritirare i passaporti a Montagna, Polito (quello della “morte per pediluvio”), Piccioni, Pavone e Maurizio D’Assia.
Il 19 settembre 1954 Attilio Piccioni si dimette, successivamente agli arresti del figlio Piero con l’accusa di omicidio colposo e di Ugo Montagna per favoreggiamento. Mentre per Saverio Polito il Sepe firmerà, solo, un mandato di comparizione con l’accusa di favoreggiamento.
Sembra che i tasselli comincino a combaciare. Proprio quando il caso Montesi pare essere in via di soluzione compare all’orizzonte una nuova pista giudiziaria. Il Messaggero, la mattina del 30 settembre parla attraverso lo scritto di Fabrizio Menghini, del giovane zio di Wilma: Giuseppe. Sottolineando la convinzione dei Signori Montesi dell’innocenza di Piero Piccioni il redattore giudiziario del Messaggero insinua il sospetto della responsabilità della morte di Wilma sullo zio. Era un uomo giovane, molto attaccato alla nipote, tanto da tenerne una fotografia in casa e non da ultimo era un uomo avvenente, proprietario di una Topolino giardinetta. Bello, giovane e con la macchina, al tempo la figura del fidanzato “ideale” per ogni ragazza.
Saragat, lo stesso giorno su Avanti dichiarerà, con espresso riferimento all’articolo di Menghini che il colpevole è stato individuato.
Una “bufala” a tutti gli effetti, tanto che lo stesso Saragat negherà quanto scritto da Avanti.
Scartata la pista “zio Giuseppe”, Sepe a metà ottobre affermerà che l’istruttoria è in via di conclusione.
Piccioni e Montagna, intanto, rimangono a Regina Coeli.
Sta, però per scoppiare un altro scandalo legato al caso Montesi: due giornalisti di Momento Sera dal marzo del 1954 stanno indagando sulla morte di Pupa Mantorzi , secondo i giornalisti dovuta ad abuso di stupefacenti. I cronisti, anche per evitare querele, incominciano ad indagare e a fare appostamenti e per giorni interi si fermano, con un fotografo davanti al numero 15 di via Corridoni a Roma, dove sorgeva una nota casa di appuntamenti.
Tra gli ospiti della casa l’Avvocato Giuseppe Sotgiu, insieme alla moglie. Sembra che il legale si recasse al 15 di via Corridoni per assistere ai giochi amorosi della consorte con alcuni giovani compiacenti. Indipendentemente dai dubbi gusti dell’allora Presidente – comunista – della Provincia di Roma, quello che suscita scandalo è che Sotgiu è l’avvocato difensore di Silvano Muto.
La bomba esplode sui giornali il 16 novembre 1954. La DC aproffita subito della notizia, mentre il PCI accusa il colpo in silenzio.
Il 19 novembre a Piccioni e Montagna viene concessa la libertà provvisoria, negata qualche mese prima dallo stesso Sepe, che, ora, è costretto anche, suo malgrado, a dare una brusca frenata all’istruttoria, la cui conclusione non appare più così imminente.
Il caso Montesi prosegue, per settimane, mesi, anni, tra aule di tribunali, sedute alla Camera e al Parlamento, tra le innumerevoli colonne di articoli qua e là sparsi sulle maggiori e – minori – testate giornalistiche. Il tutto fino alla mezzanotte del 27 maggio 1957 quando il Tribunale di Venezia assolverà con formula piena Piccioni, Montagna e Polito.
Vorremmo concludere con un’affermazione di Manlio Cancogni che scrive, commentando il processo di Venezia: sarebbe ingiusto considerare tendenziosi e gratuiti i motivi della grande crisi del 1954. Dietro quella grande manifestazione collettiva di insofferenza c’era un serio bisogno di verità e giustizia. Milioni e milioni di uomini onesti unirono la loro voce a chi aveva interesse a che lo scandalo scoppiasse (…). Anche se il dibattito ci convincerà dell’innocenza di Piccioni sarà nostro dovere collaborare e promuovere quel processo che il dibattito di Venezia non potrà esaurire”.
Oggi, a più di cinquant’anni di distanza, l’unica certezza che abbiamo è che Wilma Montesi è morta, non si sa come e non si sa perché ma la sua morte rimane l’unica certezza.
- VIA
- Silvia Vimercati