Il Lettorante
La tenerezza
La tenerezza, in una società fondata sulla forza, è un difetto, perché è confusa con la debolezza. Dunque, dove è presente la forza, si pensa generalmente, non è possibile che ci sia la tenerezza. Ma se si ponesse, invece che la tenerezza è una differente manifestazione della forza?
Se si ponesse la tenerezza come una tenuta della forza capace di piegare la tensione verso un rilassamento, un rallentamento, mai un annientamento dell’energia? La tenerezza ha una capacità di mantenimento dell’energia, che ignora ogni forma di distruzione. La tenerezza da una ragione di ogni tensione. Tenerezza è parola che ha in sé il termine “tenuta”, il verbo “tenere”; conservare, dunque, serbare, custodire. La tenerezza sa avvolgere nel riserbo un segreto, magari duro. Il riserbo, la riservatezza, la parola controllata, mai gridata, che frena il grido, che rallenta il flusso rabbioso verbale; la tenerezza allontana il male, ammorbidisce la sofferenza, lavora con pazienza smussare le punte del dolore. La tenerezza ha certamente un rapporto privilegiato con il morbo; è stata spesso confusa con il morboso. E’ con il Romanticismo che la tenerezza ha assunto una connotazione di morbosità, di attaccamento eccessivo e avvolgente verso la sofferenza dell’altro, nella compassione. L’ottundimento dei sensi, fino alla narcotizzazione del dolore; tenera allora appare l’immagine non già femminile, ma femminea della soccorritrice dell’eroe giacente nel dolore. La tenerezza diventa una componente ottenebrante dell’amore. E la musica è certamente una delle manifestazioni più dirette della tenerezza. Si dice che il “mi maggiore” sia la tonalità della tenerezza. Ma è proprio nel periodo barocco che la tenerezza diventa un costume, appannaggio dell’aristocrazia seicentesca di Francia. Viene addirittura inventato un “Paese di Tenerezza”, da cui vengono bandite tutte le manifestazioni di volgarità e vengono coltivati i sentimenti “nobili”, appunto; amicizia, amore, cortesia.
Le tenerezza diventa il sentimento centrale di un gioco di società e di aristocrazia. Allora, emerge che per coltivare una corretta tenerezza è necessaria non già una semplicità di cuore o di ingenuità, come si potrebbe pensare “volgarmente”, ma una buona intelligenza, se non una discreta cultura. D’altra parte, è proprio l’immagine del tenero pastorello, che può offrire un altro aspetto della tenerezza. In questo caso è l’immagine della naturalezza, del contatto, appunto, diretto con la natura vista non già come espressione di conflitto e di sofferenza, ma come luogo della pace e dell’armonia degli elementi, che fa della tenerezza il sentimento che guida alla riconciliazione dell’individuo con il mondo, con l’ambiente. Sia nel primo, come nel secondo caso, la tenerezza guida ad uno stato di pacificazione delle tensioni interiori: Eppure “tendre” è il termine francese per tenerezza; che è anche il verbo che significa, tradotto, “tendere”. Saremmo, qui, allora, in contraddizione con quanto scritto fin qui? Come va intesa la “tensione”, il tendere, nella tenerezza? E’, forse, pensando al fanciullo, al suo “pro-tendersi”, verso le braccia accoglienti della madre, che dobbiamo cogliere il senso della “tensione” nella tenerezza. In quanto sentimento “aperto”, caratterizzato dalla disponibilità, dall’accoglienza, dall’”abbraccio”, la tenerezza non può non essere “tesa”. L’immagine delle braccia che si protendono nell’abbraccio, come i rami di un albero slanciati verso il cielo, è un’immagine simbolica della tenerezza. Essa esclude tutto ciò che rimandi alla chiusura, alla clausura; anche se è possibile pensare a quanta tenerezza sia presente nella sommessa preghiera a braccia rivolte al cielo verso il Padre da un coro cantante di suore claustrali.
L’adorazione è certamente una manifestazione di tenerezza; se Dio va amato, non può essere amato che con tenerezza, altrimenti c’è distanza e la tenerezza è il sentimento della prossimità, della vicinanza. Per avvicinarsi all’altro occorre aver coraggio, un cuore che batte; la tenerezza, allora, in quanto tensione verso l’altro manifesta qui tutto il significato di forza che abbiamo segnalato all’inizio di questo testo. Coraggio e tenerezza; “tenerezza come beatitudine si adorare” (Carlo Rocchetta). La tenerezza, si può dire, è un sentimento e non un “sentimentalismo” che come tutti gli “ismi”, degenera il senso di un termine. La tenerezza, allora, verifichiamo che è un sentimento connotato dall’”apertura”, dall’”esser-con” direbbe Heidegger insieme a Nancy. La tenerezza non può avere espressione nella solitudine; essa necessità sempre di un rapporto, di una relazione. Se la relazione è necessaria primariamente alla tenerezza, potremmo sostenere che, contrariamente a tutta la riflessione che ha visto nel conflitto il fulcro del rapporto con l’altro, è la tenerezza che sta a fondamento di una relazione. E certamente, che la tenerezza sia in questo senso un sentimento eminentemente “cristiano” esso va tuttavia, ontologicamente, la di là di esso. Ma, certamente, Gesù ebbe un comportamento profondamente tenero, in molteplici situazioni. Ma è il rapporto di tenerezza tra il Padre e il Figlio, che sta al centro della rivoluzione cristica. Ora, la pedagogia “cristica”, è tuttora’ora “inattuale”; ancora oggi la tenerezza è un sentimento bandito dai modelli educativi nella società della competizione e dell’arrivismo, del primato. Arriviamo così al rapporto fra le tenerezza e la pietà; “la pietà è la tenerezza per Dio”(C Maria Martini). Dio è così potente, che provare tenerezza per egli reclama un forte coraggio, quello di non temere che la sua forza schiacci la sua creatura. La tenerezza è pietà, se davanti a Dio ci si pone in una posizione di preghiera, meglio di adorazione, di ringraziamento, di gioiosità. In un atteggiamento simile, come può “dio” a sua volta non essere tenero? Allora Gesù non poteva non essere “tenero” verso il Padre e il Padre verso di lui, proprio perché la relazione era reciproca, affettiva. D’altra parte, alla tenerezza viene spesso associata la parola “pietà”. Ma la “pietas”, come la chiamavano i latini, ha una connotazione radicalmente religiosa che la tenerezza non ha. Essa può essere presente in un ambito amoroso, distante da quello religioso. Nella tenerezza non alberga necessariamente la devozione o ancora meno la compassione. Si può ben dire che non è necessario fare appello a Dio per essere tenero. Tanto è vero che per molto tempo gli dei sia politeisti sia monoteisti non si sono dimostrati particolarmente teneri verso i mortali: La tenerezza, allora, si rivela essere un sentimento profondamente umano, “troppo umano” direbbe forse Nietzsche, che pure – come abbiamo dimostrato in un capitolo del nostro libro a lui dedicato che tratta proprio della presenza della tenerezza in Nietzsche stesso – conobbe ben questo sentimento così tanto bandito dalla cultura “machi sta” del nostro tempo.Già: “tenera è la notte” e i suoi eroi sono ubriachi e noi ci congediamo il calice ancora colmo da questo sentimento che ama il sommesso e il non gridato, avviandoci al silenzio del tenero abbandono abbandonato.
- VIA
- Roberto Borghesi