Il Lettorante
L’orgoglio
Un albero secolare, che ha saputo mantenere la sua chioma verde, nonostante le bufere, la pioggia, e i temporali, che si erge, diritto verso le stelle, pur salendo in alto in maniera contorta, può essere una buona immagine del sentimento di orgoglio.
L’orgoglio rimanda immediatamente alla forza, se non necessariamente alla prestanza fisica; un mendicante che si trascina ostinato sulle sue stampelle e respinge e allontana la persona buona che lo vuole soccorrere, è un’immagine di orgoglio, se non di dignità. Dignità e orgoglio procedono insieme, ma talvolta si separano.
E’ quando l’orgoglio si trasforma in superbia. Ed è presumibile che sia più quest’ultima, che non l’orgoglio che trovi biasimo presso il cristianesimo. L’orgoglio è un sentimento che rimanda alla volontà di indipendenza, al cercare di fare da sé, e per questo è visto da tutte le forme di religiosità che rimandano al principio di dipendenza e di reciprocità in modo negativo. Nella religione omerica, l’orgoglio è associato alla parola “hybris”, che indica un comportamento spavaldo, se non decisamente provocatorio, di sfida, specie in relazione al rapporto alla divinità e ai suoi dettami. L’orgoglio, qui, si collega con un comportamento che vuole ignorare la presenza dell’altro e che pertanto lo umilia, nel rifiuto della sua offerta. L’orgoglio, dunque, facilmente, da uno status positivo di autonomia singolare, diventa un fattore di scompenso, di disagio sociale, di disadattamento nel comportamento. Diventa pertanto negativo, assume una funzione di colpevolezza, di causa di malanno e va punito. Per questo gli dei puniscono, nella tragedia, quell’orgoglio degli eroi, che essi giudicano colpevolmente. Invece, da un punto di vista “umano”, l’orgoglio è una qualità; è l’orgoglio che spinge a fare conquiste, a saggiare la propria “virtù”, a camminare eretti e ad avere lo sguardo fiero.
“est autem superbia amor propriae excellentiae, et fuit initium peccati superbia”, scrive Agostino, in una formula efficace che riassume come l’orgoglio si situi al bivio tra un sentimento positivo, l’amor proprio, l’amore per la propria “eccellenza” (potremmo scrivere “grandezza”), e sia anche l’origine del “peccato” di soprafazione altrui e dell’assenza di considerazione per l’altro. Tuttavia esiste anche una forma di orgoglio che trascende la stima personale; l’orgoglio di appartenenza o di identificazione ad un “gruppo”. Anche qui, tuttavia, percepiamo come possa essere ambivalente questo “sentimento”. L’orgoglio di appartenenza, è più che una semplice adesione o partecipazione ad un gruppo; è accompagnato da un procedimento di identificazione che, paradossalmente, riversa sul gruppo la forte carica di auto-stima e di immagine di sé che è dell’orgoglio. Ancora una volta, qui, può scattare il senso di “umiliazione” dell’altro, di mancanza di considerazione dell’altro che connota negativamente l’orgoglio. Ma si da anche un’altra modalità dell’orgoglio che sembra contraddire il consueto modo “narcisistico” di intenderlo; è quando si dice “sono orgoglioso di te”! In questo caso, la stima di sé sembra dipendere da un altro, ma in realtà, l’orgoglio si rivela, ancora una volta, come una manifestazione della propria considerazione. Si è orgoglioso dell’altro perché egli ha manifestato un’immagine di vittoria, di trionfo, di prestazione positiva, di forza, di potenza, che permette all’orgoglio di rispecchiarsi in quella situazione, in quella persona. L’elogio dell’altro è, in effetti, la lode di sé, in quanto, l’altro è una occasione positiva per manifestare la propria forza. L’orgoglio proietta sull’altro il suo valore. Infatti, l’orgoglio è un sentimento che non ammette una sconfitta; anche nel caso di un insuccesso, se tuttavia colui che era alla prova ha dimostrato di avere dato il massimo di sé, allora l’orgoglio considera la sconfitta come una vittoria. Così, quando si dice che è stata data una “prova di orgoglio”, si intende dire che si è data una manifestazione della propria forza. Nell’orgoglio, in effetti, non è contemplata la sconfitta; chi perde, ma con orgoglio, accetta la sconfitta dicendo a se stesso che comunque ha dato il massimo, che non si è risparmiato, che ha lottato fino in fondo. Potremmo dire che l’orgoglio è sempre vincitore anche quando non è vincente. Potremmo dire, ancora, che nell’orgoglio sta una forma di intransigenza, certamente un’assenza di umiltà. Orgoglio è certamente sinonimo di elevatezza, mentre la parola “umiltà” contiene in sé un riferimento alla bassezza. L’orgoglio ignora la piega, il ginocchio piegato, l’inchino; l’umiltà invece si abbassa, si piega. Ciò che vi è di paradossale nel cristianesimo è che ha saputo trasferire nell’umiltà quella rettitudine propria dell’orgoglio, questo sentimento che pure esso pare condannare senza appello. Ma è quando si confonde l’orgoglio, che è un sentimento in cui la stima di sé è prevalente, con la vanagloria, ossia con l’idea che l’orgoglio abbia stima di sé in funzione dell’altro, che scatta la sua condanna. Ma è evidente che l’orgoglio non va confuso con la vanità! Si può ben dire che anche uno schiavo può manifestare il suo orgoglio!
Se la mancanza di orgoglio significa l’incapacità di resistere alla manifestazione della potenza altrui, certamente l’orgoglio può ben essere collegato allo spirito di libertà, appunto di indipendenza che connota questo sentimento. In questo senso lo schiavo, nell’orgoglio suo, può manifestare il suo amore per la libertà. Inoltre, non sempre è necessario che l’orgoglio si manifesti con atteggiamenti plateali, robusti, roboanti. Una persona discreta, riservata, perfino timida, appartata, silenziosa e solitaria come Nietzsche ha scritto parole molto forti in lode dell’orgoglio. Quante volte il silenzio è una forte manifestazione di orgoglio. Fino a raggiungere esempi di eroismo nelle narrazioni di tacere di prigionieri sotto tortura. E’ proprio da pensare, anzi, che proprio una forte componente di orgoglio abbia spinto tali persone alla resistenza al sopruso fino alla morte. L’orgoglio è un sentimento, dunque, capace di liberazione, dalle catene anche più tenaci, perfino di sciogliere da ogni sudditanza e obbedienza, e pertanto può apparire come un sentimento fortemente irreligioso; l’umile riconosce sempre un’autorità, l’orgoglio arriva a riconoscere solamente a se stesso il potere su di sé. Per questo l’orgoglio può apparire un sentimento “tracotante” nei confronti del divino e già gli dei olimpici punivano l’orgoglio come manifestazione “umana-troppo-umana” dell’individuo. E rispetto a questo sentimento si può riscontrare una certa continuità di comportamento nel religioso, che lascia trasparire quasi come un’interpretazione di un comportamento “ateo” da parte dell’orgoglio stesso, in definitiva. Allora, lo Zarathustra di Nietzsche arriva a insegnare un nuovo orgoglio: “Non cacciate più la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portatela liberamente: una testa terrestre, che crea essa stessa il senso della terra”.Queste parole riassumono efficacemente il senso “autarchico” dell’orgoglio, il suo senso eminentemente “terrestre”. Eppure, per concludere con una considerazione magari provocatoria, domandiamoci quanto orgoglio ci sia stato nel comportamento di Gesù davanti a Pilato, nel suo silenzio ostinato e nella sua postura “umile” e dimessa. L’orgoglio dell’umile; questa formula così paradossale è ancora tutta da riconsiderare, forse, magari con un altro orgoglio e senza pregiudizio!
- VIA
- Roberto Borghesi