Il Lettorante
La preghiera
Rivolgere la parola, non tacere, soprattutto non rifiutare di parlare con. E’quanto potremmo chiamare preghiera. Essa è innanzi tutto un gesto di apertura, verso, qualcuno o anche qualcosa. E’, in quanto apertura, sempre, una apertura della bocca, puro gesto di accoglimento della parola dell’altro, prontezza nella risposta. Non è necessario che dalla bocca escano dei suoni; la preghiera può, infatti, essere anche silenziosa. Ma, sempre, c’è una apertura alla condivisione, al rifiuto della solitudine; anche qui chi prega da solo in un angolo, in effetti si isola per restare meglio in compagnia di “chi” rivolge la parola. Certamente, infinite sono le modalità di pregare; potremmo dire che esse sono tante quante sono le persone. Ma è anche vero che nel corso dei secoli si sono consolidate modalità, ritualità di preghiera codificate in cui la parola ha assunto un funzionamento come meccanico. E questo ci indica, forse, come, nella preghiera, non conti tanto il senso di quanto viene detto, quanto il fatto che venga detto e ripetuto in continuazione (si pensi per esempio, al rosario). Se l’apertura è il connotato fondamentale della preghiera, è allora pensabile che tanto maggiore sarà l’apertura dell’orante, e tanto maggiore sarà la “risposta” che esso potrà percepire nella disposizione in cui si pone. L’intensità della preghiera ne è una delle caratteristiche maggiori. E si conoscono bene i fenomeni di estasi, che sono un vertice della apertura totale alla “parola” dell’altro. D’altra parte, se la preghiera va intesa, secondo noi, sempre come una manifestazione, un’espressione privata, essa, tuttavia si esprime spesso in forme pubbliche, collettive. Ed è proprio sulla espressione collettiva della preghiera che si fondano i riti e le chiese,i culti. Possiamo pensare che se anche in queste manifestazioni, i riti appaiono come espressione di rivolgimento della parola all’”Altro”; sia piuttosto il loro carattere di comunità, di condivisione di una parola comune che le caratterizzi e affidi loro un compito di consolidamento nell’insieme della forza di una parola che singolarmente potrebbe avere tono meno robusti. Intendiamo dire che, se la preghiera singolare può essere una preghiera che esce da una bocca tremebonda, quasi timida, pensiamo fra le tante alle preghiere di un grande filosofo e teologo come Kierkegaard, invece una preghiera conclamata da un altare e ripetuta dall’assemblea, può quasi avere l’effetto di un tuono. Ma, quanto a noi, è la preghiera che secondo San Francesco, cantava fratel usignolo che qui ci viene in mente. O magari quella indicibile di quel ragazzo sordomuto che pure contempla estasiato una foglia e si percepisce ch “ha la bocca aperta”. Precor; il termine che indica l’atto di pregare, ebbene si approssima molto alla parola” precario”; e ci piace pensare alla preghiera, infine, come ad una parola sempre nella precarietà, nella incertezza sia del proferire che del rispondere. La preghiera, come una foglia tremebonda sulla quale il vento intona un canto tenue, quasi impercettibile, comunque un canto d’amore. Pregare con il cor, con il cuore, magari nel canto,magari nell’incanto.