IL TEATRO “NERO” DI DE SADE: LA FILOSOFIA NEL BOUDOIR
“Prepotente, collerico, violento, eccessivo in tutto, di una sregolatezza senza uguali nell’immaginazione erotica, ateo sino al fanatismo” sarebbe lo spirito che apparirebbe sulle tavole di un palcoscenico se vi invocassimo il Divin Marchese.
Vi tornerebbe quasi 220 anni dopo la sua prima apparizione, il 22 ottobre 1791, quando, al Moliere di Parigi, venivano per la prima volta rappresentati in pubblico i tre atti dell’“Oxtiern, ovvero le disavventure del libertinaggio” (“Oxtiern ou les malheurs du libertinage”), unico dei suoi drammi ad essere messo in scena nel periodo in cui Sade visse libero, e quasi subito ritirato per aver suscitato uno scandalo.
Il Sade più conosciuto, il Sade “divino”, è quello delle novelle e dei romanzi erotici, scandalosi, sanguinari, clandestini, “proibiti”, con i loro intrecci che annodano strettamente sesso e violenza fino all’eccesso, e con i loro personaggi crudeli e affascinanti per cui questi due elementi, il sesso e la violenza, non sono altro che la trama e l’ordito della realtà. Poco conosciute invece sono le opere teatrali di Sade: durante i tredici anni della sua prigionia, prima a Vincennes, poi alla Bastiglia, il marchese scrisse, oltre alle opere in prosa, diciassette drammi, a cui si aggiunsero negli anni successivi una dozzina fra tragedia, commedie, opere, pantomime e atti unici in rima. “La filosofia nel boudoir, ovvero gli educatori immorali” (“La Philosophie dans le Boudoir, ou les Instituteurs immoraux”) non è un opera teatrale in senso stretto, ma è classificata come “dialogo filosofico”, ossia un testo filosofico in cui la dialettica fra diverse tesi viene mostrata in modo diretto attraverso un dialogo fra vari personaggi. Eppure contiene in sé la visione del teatro che ha Sade.
Composta probabilmente nel 1794 (non esiste infatti il manoscritto originale), in una situazione storica profondamente complessa, “La filosofia nel boudoir” fu pubblicata anonimamente nel 1795 in due volumi stampati a Londra, con la falsa dicitura “opera postuma dell’autore di Justine”, per ragioni di cautela (in verità Sade morirà molto più tardi, di edema polmonare, il 2 dicembre 1814, a Charenton). Sono gli anni della Rivoluzione Francese, quelli del Terrore: Sade, divenuto presidente della “Sezione di Picche”, viene arrestato per moderatismo alla fine del 1793. Accusato da Fouquier-Tinville di complicità in cospirazioni monarchiche (Sade è inviso ai capi della Rivoluzione per la sfiducia dimostrata nei loro confronti e per la sua proposta di un governo popolare diretto), è condannato alla ghigliottina. Mai come in questa occasione egli rischia di pagare con la vita il suo essere “al tempo stesso rivoluzionario e aristocratico e diviso fra conservazione e rivoluzione”, come lo definisce Moravia, non integrato né in una parte né nell’altra; fortuitamente, però, scampa alla morte perché l’usciere del tribunale rivoluzionario non riesce a trovarlo nelle varie prigioni. Dopo la fine della dittatura di Robespierre viene rimesso in libertà, nell’ottobre del 1794.
Citando A. Moravia, “la razionalizzazione (…) ha un duplice effetto: da una parte, fonde la violenza della ragione con quella del sesso, portando quest’ultimo alle più estreme conseguenze, dall’altra fa oltrepassare a Sade il limite difensivo e giustificativo e (…) lo fa sboccare in una coerente rivolta contro l’ordine costituito. (…) Sade chiede alla ragione non già di illuminare il sesso (come Freud) , ma di renderlo più potente e sistematico. (…) la ragione si rivolta contro l’ordine costituito in nome del sesso (cioè la natura) ma il sesso, reso razionale e sistematico dalla ragione, dimostra a sua volta che la natura è anch’essa un ordine costituito basato sul principio del piacere (chiamato dalla società “il male”) e non meno esigente e tirannico di quello sociale”.
Sade ricorre dunque alla filosofia per razionalizzare e giustificare le sue tesi che egli sta già realizzando concretamente nel suo modo di vivere, e per farlo sceglie la forma del dialogo. Quello che ottiene però va al di là: “La filosofia nel boudoir” non è solo un trattato di “sadismo”, ma un vero e proprio spettacolo teatrale da “Grand Guignol”.
L’opera è costituita da sette scene, in cui alcuni personaggi moralmente corrotti diventano gli iniziatori al rito del sesso di una giovane vergine. A guidare questa “celebrazione”, quasi nel ruolo di gran sacerdoti, sono un uomo e una donna: il “cinico” Dolmancè, dissoluto libertino e sodomita, e la “voluttuosa” signora di Saint-Ange. Quest’ultima viene incaricata da uno dei suoi numerosi amanti, di educare ai principi del più sfrenato libertinaggio sua figlia, l’”ardente” quindicenne Eugenie de Mistival. A contribuire alla sua formazione saranno chiamati anche il Cavaliere di Mirvel e due servitori, Augustin e Lapierre.
L’azione si svolge quasi totalmente all’interno di un “delizioso boudoir”, come si può leggere nella didascalia che apre il terzo dialogo. In tutto il testo ci sono indicazioni sui movimenti e le espressioni dei personaggi: essi arrosiscono, si turbano, palpitano, inorridiscono, si baciano, si toccano, escono ed entrano, senza contare gli innumerevoli gesti legati all’ambito del sesso.
Sade dice di dedicare il suo lavoro a tutti i libertini, alle donne impudiche, alle ragazze audaci e ai dissoluti affinché seguano l’esempio dei suoi personaggi per poter seminare “qualche rosa sulle spine della vita”: parla de “La filosofia nel boudoir” come di un’opera pedagogica, tanto da dire che “La madre ne prescriverà la lettura alla figlia”. Come nel teatro greco la tragedia trasmette regole sociali e morali a tutta la comunità che assiste alla rappresentazione, ricorrendo alle vicende di determinati eroi del mito, così Sade utilizza personaggi ben delineati, a tutto tondo, per insegnare a un determinato e limitato pubblico, le sue regole di vita. I suoi personaggi-profeti, portavoce della nuova legge, sono “eroi” assolutamente negativi, grandiosi nella loro crudeltà e nell’eccessività dei loro vizi.
Le sue parole ribaltano le regole della morale comune, annullano tutti i tabù e le colpe per cui invece sono puniti gli eroi della tragedia classica: in Sade non c’è alcuna condanna né terrena né ultraterrena. Un tabù alla base della vita civile come l’incesto, viene sgretolato praticamente subito, in modo leggero e indolore, nel primo dialogo, dove la signora di Saint-Ange ed il di lei fratello, il Cavaliere di Mirvel, hanno un esplicito rapporto sessuale.
C’è una sorta di rito di iniziazione drammatizzato, ma con un ribaltamento: Eugenie, all’inizio fanciulla da iniziare, ma anche vittima da immolare, diventa alla fine essa stessa iniziatrice e carnefice nell’ultima scena, senz’altro la più violenta, impressionante e sanguinaria dell’opera, dove si raggiunge l’apice di un crescendo continuo, che percorre tutto il testo. Anche qui c’è un incesto, cruento, scioccante, tra una madre e una figlia: il sacrificio di Eugenie, ormai convertita, trasformatasi da perseguitata in persecutore, viene sostituito dal sacrificio di sua madre, la signora de Mistival, rimasta ancorata alla vecchia moralità, simbolo incarnato di una presunta virtù.
L’uniforme flusso di pensiero al quale attingono i vari educatori, durante le “lezioni di teoria” è interrotto da un’abbondante dose di azione. Lunghe dissertazioni si alternano a scene in cui i personaggi agiscono esclusivamente col loro corpo, in pratiche sessuali e violente, sono coinvolti solo con le loro forti sensazioni fisiche, e non con la ragione. A dirigere queste “scene d’azione-eccitazione”, nel ruolo di “metteur en scene”, c’è Dolmancè, che prepara accuratamente i vari quadri, disponendo i personaggi, e decidendo il ruolo di ciascuno.
All’interno del quinto dialogo, quasi al centro dell’opera, questa alternanza di pensiero e azione si interrompe: si ferma il dialogo, si bloccano i movimenti e il procedere della storia. Tutto sembra cristallizzarsi per lasciare un grande spazio ad un vero e proprio trattato di “filosofia sadiana”.
Questa sezione è infatti occupata in massima parte dal pamphlet “Francesi ancora uno sforzo se volete essere repubblicani”, il più importante scritto politico di Sade, letto ad alta voce da Dolmancè.
M.Heine riassume il suo contenuto ricordando ancora una volta l’opinione negativa di Sade sulle società umane, sui “compromessi sociali” accettati dall’individuo. Sade crea una sorta di “stato ideale” per coloro che saranno capaci di capirlo e leggerlo senza pericolo, come l’“Utopia” di Moro o la “Repubblica”di Platone, attraverso il frequente richiamo a società antiche, soprattutto la Roma imperiale, o altri popoli lontani come modelli, incentrando la sua analisi prima sulla religione e poi sui costumi.
Nel primo capitolo è evidente ancora una volta l’ateismo di Sade che invoca la distruzione di tutti i culti e gli idoli, creati dall’ignoranza e la paura, tramite la messa in ridicolo di essi, per lasciare il posto al coraggio e alla libertà.
Le virtù non devono basarsi su false idee religiose, che prima o poi cadranno, ma sul cuore stesso degli uomini: essi saranno “onesti per egoismo”, perchè la virtù è naturalmente necessaria per la loro personale felicità. Inoltre il dispotismo e la religione sono sempre state strettamente legate e perciò per annientare uno è essenziale colpire l’altro. Se prima si rendeva a Cesare ciò che era di Cesare, adesso la rivoluzione ha detronizzato Cesare.
Il marchese continua affermando che se proprio si crede necessario un culto, allora sia imitato quello pagano, incentrato sulle azioni, le passioni, gli eroi, eroi che ogni uomo sarà portato ad imitare nella speranza di essere adorato lui stesso, un giorno.
Il secondo capitolo è dedicato all’analisi dei costumi, su cui si dovranno basare le leggi.
I doveri dell’uomo sono di tre tipi: quelli verso un Essere Supremo, quelli verso gli altri, quelli verso se stessi. Abolite tutte le leggi contro il delitti religiosi, Sade passa subito al secondo punto e dichiara che i misfatti da commettere verso gli altri possono essere: la calunnia, il furto, il libertinaggio, l’omicidio.
La calunnia non è condannabile: se fatta verso un uomo perverso non fa che rilevarne la colpa, se fatta verso un uomo innocente, prima o poi sarà smascherata e quell’uomo, colpito dall’ingiustizia, cercherà di comportarsi ancora meglio.
Il furto poi esalta il coraggio, la forza, la destrezza. Non fa che rendere effettiva l’uguaglianza, quando chi non ha niente toglie qualcosa ha chi ha tutto.
Un discorso molto più lungo è svolto attorno al libertinaggio, suddiviso nei temi: prostituzione, adulterio, incesto, stupro, sodomia.
Prima di tutto Sade attacca il pudore, affermando che esso non esiste nella natura ma, essendo nato dalla civetteria delle donne per suscitare maggior desiderio e nascondere i loro difetti, è il primo effetto della corruzione.
Per quanto riguarda la prostituzione, visto che i “desideri tirannici” dell’uomo devono avere libero sfogo, affinché non turbino il governo, le donne, tutte, devono sottomettersi ad essi. Nella natura, infatti, le femmine sono disponibili per tutti i maschi; sono “l’interesse, l’egoismo e l’amore” (“follia dell’anima”) a creare quei legami ingiusti che uniscono un uomo ad una donna. “Mai un atto di possesso può essere esercitato su un essere libero” dice Sade. In questa situazione, in cui tutte le donne sono messe in comune, ovviamente l’adulterio è reso nullo, così come l’incesto (“Non è un pregiudizio abominevole considerare delittuoso che l’uomo elegga per il proprio piacere l’oggetto al quale il sentimento della natura lo fa sentire più vicino?Tanto varrebbe dire che ci è proibito amare troppo coloro che la natura ci ingiunge di amare di più”).
Mentre dello stupro Sade si limita a dire che è meno grave del furto e che non fa che “mettere un po’ prima l’oggetto di cui ha abusato nella stessa condizione in cui l’avrebbero di lì a poco messa le nozze o l’amore”, più spazio è dedicato alla sodomia. Scrive che è ingiusto condannare un uomo solo perché ha gusti sessuali diversi; inoltre tutte le parti del corpo sono simili, non ve ne sono di “pure” e di “immonde”, ma sono tutte importanti allo stesso modo.
L’ultima sezione riguardante i delitti contro gli altri tratta dell’omicidio, anche questo giustificato dalla razionalità sadiana, punibile solo attraverso “la vendetta degli amici o della famiglia dell’ucciso”. L’omicidio non è contro natura: la distruzione è una legge, un bisogno naturale, perché la morte non fa che creare materia prima da cui la natura dà origine a nuove forme viventi.
Un rilievo particolare è da attribuire a due principi che lo scrittore enuncia nel pamphlet.
Il primo è l’odio per la guerra: Sade la definisce il mezzo più immorale di conservazione di uno stato, che rende lo stato stesso e i suoi individui immorali. “Custodite le vostre frontiere e restate a casa vostra, rianimate il vostro commercio, ridate energia e sbocchi alle vostre manifatture, fate fiorire le vostre arti, incoraggiate l’agricoltura (…). Lasciate che i troni d’Europa crollino da soli. Il vostro esempio, la vostra prosperità li abbatteranno ben presto, senza che voi dobbiate immischiarvene (…). Tutto ciò che desiderate è realizzabile senza che lasciate i vostri focolari” dice Sade.
Il secondo è la condanna dell’”atrocità” della pena di morte, “perché la legge che attenta alla vita di un uomo è impraticabile, ingiusta, inammissibile”. La legge infatti è “fredda”, non è animata dalle passioni e dagli impulsi naturali che possono portare l’uomo ad uccidere, è in “opposizione alla natura” e perciò “non può essere autorizzata a permettersi gli stessi eccessi” degli uomini. Inoltre la pena di morte “non ha mai represso il crimine”, e comporta, paradossalmente, che “invece di un uomo in meno tutto a un tratto ve ne sono invece due”.
Saranno questi due principi a far accusare il marchese di moderatismo.
La presenza del testo “Francesi, ancora uno sforzo” all’interno dell’opera sembra allontanarla in modo definitivo dal “teatro”. In realtà il pamphlet è inserito artificiosamente nel contesto del dialogo e, come ha notato G. Lely, “finisce per compromettere l’armonia della Filosofia nel boudoir. E’ possibile che Sade, avendolo in un primo tempo destinato a una pubblicazione indipendente, abbia creduto di doverlo includere in quest’opera per ringiovanire l’intreccio e i costumi, troppo profumati di ancient regime”.
Nonostante molti elementi teatrali siano presenti (fra cui è senz’altro da sottolineare il mantenimento delle tre unità aristoteliche di luogo, tempo e azione), “La filosofia nel boudoir” è irrappresentabile. Ed è la sua struttura stessa a porre questo limite. Mentre, cioè, Sade da una parte compone una vera e propria “play” (nel senso più tecnico del termine), dall’altra nega qualsiasi sua possibile rappresentazione. Fornisce i mezzi, e nello stesso tempo impedisce di usarli. La stessa presenza di azione e dialogo impedisce una rappresentazione: l’azione, infatti, è, quasi esclusivamente, pornografica e violenta, eccessiva per essere rappresentata. Le conversazioni, poi, sono incredibilmente verbose, veri e propri monologhi, troppo lunghi e troppo complessi, teatralmente inefficaci.
E’ vero che non tutti i testi drammatici sono stati scritti per prendere poi forma fisica su un palcoscenico. Come il teatro senechiano, così “La filosofia nel boudoir” potrebbe allora essere “teatro da leggere”.
Ma c’è anche un’altra soluzione.
Il 27 aprile del 1803, Sade, dopo essere stato imprigionato venticinque mesi a Saint-Pelagie e a Bicetre, a seguito del suo arresto per pornografia, a causa della pubblicazione dei suoi romanzi “Justine” e “Juliette”, viene trasferito nel manicomio di Charenton, manicomio in cui venivano confinati individui che si erano dimostrati pericolosi alla società, anche senza essere veri e propri malati di mente. Qui, grazie all’approvazione del direttore Coulmier, può organizzare dal 1803 al 1808, all’interno dello stesso manicomio, delle vere e proprie stagioni teatrali, dirigendo altri ricoverati in messe in scena di spettacoli dilettanteschi, più che altro di esercizi declamatori nello stile dell’epoca. Il pubblico che assisteva a questi programmi era interno al manicomio: erano un singolare esperimento terapeutico, che anticipava in un certo senso il moderno psicodramma. Successivamente, però, la notizia di queste rappresentazioni particolari richiamò l’attenzione di molti esponenti del bel mondo parigino, che cominciarono ad assistere agli spettacoli.
Pensiamo allora anche questo testo, considerando comunque che è stato scritto diversi anni prima delle rappresentazioni di Charenton, calato in una situazione simile. In questo caso, però, visti gli argomenti provocatori e le tesi inaccettabili di alcune scene, e le oscenità e gli orrori di altre, insopportabili per la persona comune, irrappresentabili per il palco, il pubblico viene ridotto al minimo: un solo spettatore.
Un solo ed unico spettatore che è l’autore stesso. La forma drammatica potrebbe dunque servire a Sade per dare una consistenza più reale possibile alla visione che ha nella sua testa. Egli, come qualunque altro individuo seduto in platea, vede le immagini vivere davanti a se, presenti e concrete. La sua mente diventa lo stage per quelle figure che ha creato, per quella rappresentazione illusoria, ma efficace quanto la realtà. Ma per quale motivo Sade ideerebbe una tale messa in scena?
Forse per compiere una sorta di catarsi, di purificazione, tramite la riproduzione irreale di ciò che lui vorrebbe realizzare nella realtà.
Oppure potrebbe essere l’esatto opposto. Alberto Moravia, considerando delle pagine di “Justine”, in cui la protagonista è costretta a partecipare a un’orgia con frati e altre ragazze all’interno di un convento, parla di “una mascherata, del genere di quelle che vengono talvolta organizzate nei bordelli per soddisfare le fantasie erotiche dei clienti più esigenti. Così nel libro di Sade le puttane sarebbero mascherate da ragazze religiose e virtuose, i clienti, da monaci, il bordello, da convento(…) Tutto questo durerà finchè Sade (…) raggiungerà finalmente l’orgasmo.” Anche in questo caso, Sade utilizzerebbe la sua proiezione mentale come pantomima per eccitarsi, non per sedare il desiderio sessuale, ma per acuirlo maggiormente.
Dare una risposta precisa sul pensiero di Sade è tutt’altro che facile. Delineare in modo definitivo e univoco una figura complessa e contraddittoria, intellettualmente dinamica (anche se immobile nel corpo), ricca di fantasia, di carica dirompente, con quella che Moravia chiama “duplicità manichea e intellettualistica (…) di aristocratico-rivoluzionario, di libertino-moralista, di ribelle-conformista, di ottimista-pessimista” come quella del Marchese, che, pur passando attraverso un periodo storico che ha visto continue e radicali mutazioni, si è sempre trovato in contrasto con la società e con la cultura contemporanea, tanto da essere apprezzato pienamente solo nel ‘900 con i surrealisti, significa impoverirla, schernirla, darne una visione riduttiva, approssimativa e inesatta.
Così parla di sé il Sade di Peter Weiss
“Per discernere il vero dal falso
dobbiamo conoscere noi stessi
Io
non mi conosco
Quando credo di aver scoperto qualcosa
già ne dubito
e lo nego
Qualunque cosa facciamo è solo larva
di quello che vorremmo fare
e mai si scoprono verità diverse
dalle verità mutevoli delle proprie
esperienze
Io non so
se sono il boia o la vittima
Invento le torture più mostruose
e nel descriverle
le patisco nella mia carne
Sono capace di tutto e tutto mi riempie di
spavento…” .
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